10 febbraio Esuli…Figli

“ESULI … FIGLI”

di Daniela Arena ( tratto dalla rivista “La Voce di Fiume” maggio 2015)

Salgo le scale …due gradini per volta, tre se ce la faccio, l’energia dei bimbi supera le leggi della fisica! Uno, due, tre, quattro piani fiatone e guance rosse, passamano largo in legno, la mia mano piccola lo afferra a stento tirandosi su per gli scalini enormi.
Eccomi! Spingo piano la porta, il chiavistello mi sembra grandissimo…entro.
Casa, barca, oasi! Oasi, casa , barca! Casa dei nonni.
È un nido piccolo, accogliente, dignitoso, con un accenno di sforzo neoborghese anni ’50 ironicamente assorbito dall’ecletticità degli oggetti. È come se ogni cosa pur assolutamente immersa nel presente non gli appartenesse.
Non è un salottino di “rappresentanza”, non ha la pretesa di esserlo.
Ogni oggetto è lì senza impedimenti per noi nipoti nuove vite, vita nuova, come uno che ti dica “Prendi pure, non ho nulla da perdere”.
Entro e mi avvolge quel profumo…è una coperta o una vela? Quell’ atmosfera quotidiana, ma “altra”, un’atmosfera che ti prende tutti i sensi, ti accoglie e accogliendoti spinge oltre.
Spingere quella porta è per me entrare in un quotidiano mondo di Narnia.
La colonna sonora è una cantilena dolce, il dialetto “fiuman”, criptata melodia che si canta solo lì.
Ti accoglie l’essenzialità di un “pied a terre” dell’esistenza. Superato il piccolo ingresso sei già in cucina “meeting point” di chiunque passi da lì, puoi sempre trovarci qualcosa e nella dignità di quel quotidiano ordine l’odore non è sterile, ha un profumo di casa, di strudel, palacinche, pinza, pasta e fagioli con aromi che raccontano storie, ripieno per il pollo, segreta meravigliosa mistura che il pollo non lo ha mai visto perché finisce prima di farcirlo. È la sua cucina, la cucina della Valeria, la nonna. Mi chiedo come questa cucina così piccola potesse essere tanto accogliente e oggi così viva nei miei ricordi. Provo a razionalizzare e mi dico che forse a me così piccina sembrava tutto grande. Non basta! Questa grandezza che fa spazio all’ospite e dilata un luogo fisico dove tre per tre non fa più nove, ma “entra pure ti aspettavo”…oggi mi parla di altro. La Valeria è qui e solo le dimensioni della sua cucina sono più piccole, non quelle dell’accoglienza che restano quelle dilatate della sua grande cucina di Fiume, dove la Valeria la conoscono tutti e tutti passano a trovarla per “ciaccolar” vicino allo “sparchet”. Qui lo “sparchet” è una stufetta a gas, ma il calore è lo stesso. Due passi, le narici ancora piene degli aromi culinari di quel casalingo altrove e già il profumo di mele, uvetta e pinoli vortica danzando fra due porte mescolandosi a quello di “quadri freschi” tempere e colori ad olio. Entro nel salottino … due mobiletti a specchiera, due poltroncine rosse a fiori, un divano verde, un lampadario in vetro che gioca a fare il cristallo, tanto colore, alle pareti quadri e quadri ed al centro sul tavolo, in vetro anche lui con un ironico vezzo da marmo, sempre una scacchiera pronta e lui seduto con le sue belle mani, un pennello e una tela da dipingere…eccolo, il Mario … il nonno!
Non mi respinge per concentrarsi se gioca a scacchi e se dipinge posso sedermi accanto a lui e le sue grandi mani, accompagnando le mie piccole mani, mi insegnano a disegnare gli alberi! Prima le radici, che ti avevano reciso, poi un susseguirsi di rami generati dal grande tronco ed un ramo dopo l’altro prende forma un grande albero rinsecchito … sono quasi un po’ delusa, ma ecco che mi insegna a disegnare le foglie prima una piccola e poi una dietro l’altra, finché come miracolosamente l’albero riesplode di vita e così frondoso e attaccato alla terra implora il blu del cielo come a cercare una patria più grande di un luogo.
Com’ero orgogliosa a scuola di saper disegnare gli alberi, di aver avuto un maestro solo per questo!
Non ho proprio la sensazione di disturbarlo, la vita gli ha dolorosamente insegnato che “un imprevisto è la sola speranza”, come afferma Montale in “Prima del viaggio” e sarà pure “una stoltezza dirselo”, e tu non me lo hai detto, me lo hai insegnato silenziosamente, come silenziosamente dall’“esserci” di chi ti stava intorno lasciavi disturbare i tuoi quadri e i tuoi figli e i tuoi nipoti diventavano girasoli gialli su fondo azzurro, come se accogliendoli nella loro festante infanzia e impetuosa gioventù, desiderosa della felicità come del sole, inconsciamente li affidassi al cielo.
Quanto gozzaniano “ciarpame reietto” caro al mio cuore, quante “buone cose di pessimo gusto” in questo salottino, in questa goccia di tempo e di storia.
Mai ci avete parlato con rimpianto o rancore incastrato nel passato della vostra storia, non di un cimitero di nostalgie ci avete silenziosamente consegnato il testimone, il vostro dolore del ritorno, la vostra potatura è diventata piuttosto un campo arato aperto a nuova semina, la vostra nostalgia una brezza sulle nostre vele.
Silenzi, forse inconscia rimozione di un dolore troppo forte o protezione verso chi ancora non conosceva assenze, tacito accordo e sguardo d’intesa con la vita che tenacemente continua, silenzi … ma pieni di memoria.
Solo qualcosa è ogni tanto emersa nei racconti, subito accompagnata da ironia.
Eppure chissà che voragini carsiche dell’ anima avete portato con voi fra le poche cose che vi hanno seguito “all’altra riva” nel vostro esodo, quali venti di bora hanno percorso quei silenzi, quel vostro accettare.
Come avete fatto a non disperare “a non morire di malinconia per una terra che non è più mia”? La vostra consegna silenziosa è rimasta in me come un seme dormiente, pronto a germinare solo quando l’aratura di certe assenze avesse lasciato lo spazio per accoglierlo.
Chi più di voi ha vissuto quell’assenza più forte della presenza, da vivere nonostante il quotidiano, da vivere dentro il quotidiano.
E in questi tempi così difficili da “leggere”, mi chiedo: “cosa, chi vi ha custodito il cuore? Con quali pietre avete costruito quel monastero semplice e interiore a proteggere ciò che in voi la storia voleva cancellare?”.
È una memoria di bellezza la vostra eredità, una silenziosa nostalgia che scorre nelle vene come una melodia di Smetana, un cuore accordato a suonare l’assenza, un dolore del ritorno (nòstos àlgos) che soffia su un veliero. Voi privati di tutto ciò che di bello avevate conosciuto, avete custodito una passione tenace per la Bellezza, un’ alchimia contro la cancellazione di voi. Dentro i tuoi piccoli vezzi nonna! Fra i bigodini e le collane di perle finte, nelle tue pose fotografiche ironiche e austere, nel tuo incipriarti le rughe, nella tua cucina, nel tuo consegnarmi qualcosa con le tue ricette. In quei coralli poggiati sui mobili che raccontavano di mare e profondità. Nella tua passione, nonno Mario per le scarpe belle che nell’“incantevole Fiume” passavano, coperte dalle ghette, davanti alla Torre Civica o a San Vito, nel tuo uscire senza mai su il cappello uno invernale ed uno estivo. Nei tuoi giochi di prestigio in cui facevi scomparire una moneta che poi, davanti ai miei occhi stupiti, saltava fuori da dietro un orecchio. Nel tuo prendermi in braccio per salutare con un bacio soffiato le foto di Clementina e Giovanni i tuoi genitori, in camera da letto a custodire il tuo cuore bambino.
Quale “tremendo angelo” della nostalgia vi ha suggerito sussurrando che senza la bellezza non si vive? Lo stesso che ha custodito la parte più profonda di voi, quella che nessun esodo e nessun dittatore può cancellare.
Ci hai regalato il blu che ti portavi dentro, il blu del tuo mare, sfondo dei tuoi quadri, lo cercavi forse … quando come preso da una forza primordiale hai dipinto di turchese i mobili della
cucina, e gli oggetti quotidiani ne apparivano come trasfigurati, avevi dipinto perfino un vecchio fucile subacqueo che legato al balcone reggeva i fili della biancheria come una scultura post moderna … puntava non più verso gli abissi, ma verso il cielo come ad aprirsi un varco. E forse era proprio vernice per barche quella che usavi, come se ogni cosa dovesse salpare di li a poco o prendere il volo come in un quadro di Chagall sui tuoi meravigliosi aerei di carta, che lanciavi dalla finestra per divertire i bambini.
Che strana miscellanea di attaccamento al luogo, quello perso e quello trovato e nel contempo desiderio di libertà, una strana “verginità”, una ricerca di blu nella quotidianità.
Non so se era già Fede quel segreto, quello scrigno nel vostro cuore.
Mentalmente vi saluto, apro la porta di casa vostra per uscire, potete dirmelo adesso, adesso lo so che “la bellezza è una ferita”, la mia mano apre il chiavistello e sembra la tua nonno e appesi alla porta d’ingresso di casa vostra li vedo ancora il gagliardetto della vostra Fiume “gemma del Carnaro” e un piccolo quadro con la cornice scheggiata, è l’Angelus di Millet, oggi custodisce casa mia come un tempo la vostra casa Fiumana … un uomo e una donna a capo chino fermano il lavoro … “Accada di noi secondo la Tua parola … la Bellezza si è fatta carne …”.
Il male non è l’ultima parola sulle brutture della storia e la possibilità della bellezza riaccade come una foglia tenace su un ramo spoglio, come una monetina in una mano.

Letture Consigliate:

Emilio Stassi, “Giocando a scacchi nei gulag di Tito”, Oltre Edizioni

Stefano Zecchi, “Rose bianche a Fiume”, Mondadori

Jan Bernas,”Ci chiamavano fascisti, eravamo Italiani: istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti”, Mursia