4xdieci. Due in più per lo scrittore Luigi La Rosa

16640892_10212164113927175_2869609294050446886_nEbbene si, questa volta le domande raddoppiano. Mentre lo scrittore messinese Luigi La Rosa si prepara a incontrare i suoi lettori concittadini per l’ennesima presentazione della sua ultima fatica ( ma chi conosce la sua passione per Parigi sa perfettamente che la fatica scompare davanti ad un grande amore) noi pubblichiamo le risposte che ha voluto concederci, condividendo con noi la sua passione più grande: la scrittura.

– Cosa rappresentano  per lei la lettura e la scrittura?

Lettura e scrittura sono sempre state per me un assoluto – un modo di stare al mondo, di osservarlo, forse di comprenderlo. Fin da quando ho memoria ricordo che non c’è stato un giorno senza un romanzo, una storia da leggere, a partire dal primo libro della vita che fu Menzogna e sortilegio della Morante, iniziato intorno ai dodici anni. Non ho coscienza di quanto allora mi fu chiaro, ma ho presente la sensazione di piacere indescrivibile prodotta in me dallo scorrere delle pagine e della vicenda. Il rapporto con la scrittura viene addirittura da ancora più lontano: ho ricordi di poesie scritte intorno ai sette anni, in pomeriggi un po’ ombrosi e pieni di mistero. Credo che quello che è davvero necessario abbia origine in quella fase lontana e indimenticabile della vita.

– Ci racconti brevemente quale è stata l’esperienza più forte di  lettura e scrittura che ha fatto nella sua vita.

L’esperienza di lettura più forte della mia vita è rappresentata da un romanzo che ho continuato ad amare e che rimane ai miei occhi una vetta stilistica ed esistenziale assoluta, ossia Le ore di Michael Cunningham. Ricordo un’estate di parecchi anni fa, un’estate lunghissima, e la sensazione del vivere che s’imponeva alla pagina, che trascinava fuori dal racconto emozioni e personaggi, poi, infine, la musica infelice del genio di Virginia Woolf che irrompeva nella storia, l’emozione di seguire le sue ultime giornate di vita tramite lo stile a dir poco sublime del grande scrittore americano, che qualche anno dopo avrei conosciuto a Roma e intervistato per la rivista Orizzonti. Questo per quanto riguarda la lettura. Per quel che concerne la scrittura, invece, l’esperienza più forte che ricordi è legata alla redazione del mio primo libro, nell’estate in cui finiva un amore importante della mia vita e mi ritrovavo tutto solo, a Parigi, senza conoscere nessuno nella grande metropoli, e nella stessa strada in cui erano vissuti Hemingway, Verlaine e Joyce. Ecco, la magia di quei mattini mi ha letteralmente cambiato, come persona e come scrittore. Credo che non la dimenticherò mai.

– All’interno della sua esperienza di scrittore e di esperto di scrittura che posto occupa la sua nuova pubblicazione “Quel nome è amore?” 

Questo nuovo libro occupa un posto per me fondamentale, perché giunge dopo la prima puntata dell’avventura parigina, ne raccoglie l’eredità e si apre alla terza fase già in cantiere. E’ il momento in cui le energie iniziali della città e del mio rapporto con essa si consolidano. Lo stadio nel quale Parigi non è più solo sogno e utopia, ma una città reale, abitata da amici e conoscenti, ma pure di spettri – quelli che l’hanno resa grande e che ne alimentano il mito. E’ un libro che si è scritto da solo, in pochi mesi, e che si è imposto all’immaginazione. Per questo gli sono molto legato.

– Che rapporto ha una città come Parigi con la riflessione letteraria e artistica e cosa le piace di più di questo rapporto?

Parigi, in qualche misura, è la città della Letteratura per eccellenza. Se pensiamo a cosa sono diventate le carriere di scrittori come Hemingway, Joyce, Orwell – solo per citarne alcuni – dopo l’arrivo nella Ville Lumière, se rileggiamo la ricaduta esistenziale e creativa che la capitale francese ha avuto sulle intelligenze di questi grandi maestri, comprendiamo la sua unicità e l’esclusività del suo rapporto con la scrittura. Parigi è stata per tutti una stazione importante, irrinunciabile. Lo è anche per me. Lo sarà per molti altri, domani.