La preposizione “DI”

di Andrea Monda

“Tema nuovo: preposizioni.

Dopo ben due anni dedicati ai verbi, le azioni degli uomini (in ossequio al principio della concretezza tanto caro a BC che, secondo la lezione di Flannery O’Connor, avverte la letteratura come la più “incarnata” di tutte le arti), ecco che ora ci spostiamo ad un livello apparentemente inferiore: le preposizioni. Dalle altezze del verbo, cuore del linguaggio umano, scendiamo nel dettaglio di queste minuscole particelle, monosillabiche, che però rivestono grande importanza (chi ha detto che “Dio è nei dettagli”?). Tutte le conosciamo, la filastrocca che ci hanno insegnato da bambino ancora la ricordiamo a memoria: di, a, da, in, con, su, per, tra, fra, sono loro, queste umili ancelle della frase che ci faranno compagnia per quest’anno fino a giugno rivelando tutta la loro discreta e modesta potenza. Le preposizioni non sono possenti come i verbi, non sono affette da protagonismo come i nomi ma senza di loro cosa combinerebbero nomi e verbi? Sarebbero belli e solenni quanto tristemente incompleti. Introducendo i “complementi” le preposizioni appunto completano, facendo da ponte tra le parole, portano a compimento la promessa insita nel nome e nel verbo. Una piccola particella, un piccolo suono di una sillaba soltanto, ma è quel gancio, quel chiodo che tiene unite le cose; le preposizioni con dignità rispondono alla nobile domanda: “cosa tiene unito il mondo?”. Se i verbi e i nomi sono le grandi assi di legno di quell’Arca di Noè che è il linguaggio umano, questa accogliente nave che salva e accompagna il viaggio dell’umanità nelle onde della storia, le preposizioni (semplici o articolate) sono i piccoli chiodi, gli snodi attraverso i quali si articolano quelle grandi assi altrimenti inutilizzabili. Chi vuole salire a bordo lo faccia, presto, che si parte il 5 novembre!

Quest’anno quindi il nostro lavoro si fa più umile, terra-terra, il nostro sguardo più microscopico, la pazienza certosina e andremo a esplorare e a far esplodere (cos’altro fa BombaCarta?) queste piccole particelle del discorso che sono le preposizioni, consapevoli che questa fatica è lo stesso lavoro del poeta, che è come ha detto di recente un famoso padre gesuita (no, non è Antonio Spadaro): «Poeta è qualcuno che lavorando con pazienza sulla parola la salva, ne salva la dignità»
A conferma dell’umiltà delle preposizioni, la prima, “di”, è già una grande “seconda”: il complemento di specificazione, nella lingua latina (priva di preposizioni) il caso genitivo è il secondo caso, dopo il nominativo.

Il “di” indica specificazione e questo già mi piace, sempre per quel principio di concretezza prima citato: il discorso umano non resta nel vago, ma si specifica, tende a circoscriversi. E mi piace ancora di più il termine latino: il genitivo. Mi sa di “generativo”, di genus, di gens, di sangue. In fondo noi siamo sempre “di” qualcuno, nel senso di “figli di qualcuno”. Non esistono solo i nomi, ma – non siamo supereroi – per fortuna anche i cognomi (che spesso sono preceduti dal “di….”) ad indicare la dimensione sociale e non solitaria dell’essere umano. In fondo il “di” sta a segnalare la dimensione dell’appartenenza che, forse oggi è un po’ in disuso a scapito dell’enfasi data all’identità, ma resta il fatto che quando devo fare una dichiarazione di identità dopo la domanda sul nome la seconda, finalizzata a conoscere le mie “origini”, è, semplicemente: “di”?”