Recensione a Ian McEwan “Nel guscio”

di Rosalia Mollica
Tutti pronti, silenzio in sala, giù  le luci! Sipario!!
Eh sì,  se non fossimo con un libro in mano, sprofondati nella poltrona di casa, saremmo certi di partecipare ad una  pièce de theatre, magari al “Globe Theatre”, con Shakespeare regista e coautore: l’immaginazione e il romanzo “Nel guscio” di Ian McEwan  fanno  miracoli.
Interno giorno, interno notte. La scena si svolge in pochi ambienti,  ciò  che avviene fuori è  narrato, mai visto, solo riferito.  Escludendo alcune fugaci comparse quattro sono i personaggi in scena, anzi cinque, un personaggio non c’è  ancora ma ha il compito di raccontare, pur essendo un non-nato è ancora nel grembo materno come in  “ lettera a un bambino mai nato” ma con i ruoli capovolti e a fosche tinte. Tutto ciò che vediamo lo vediamo filtrato attraverso gli occhi di colui che nulla può ancora vedere ma solo percepire attraverso i sensi, ma che comprende più di chiunque altro.
I personaggi di questa tragedia moderna, Trudy la  madre amata, odiata, fedifraga e assassina, John Cairncross  il padre, “ venuto al mondo sotto una stella accomodante,  troppo servizievole, sollecito e cortese..”un poeta dedito alla “ formula anacronistica di un sonetto “, Claude, lo zio “ che non compone e non inventa niente, zotico duro di mente” anch’egli fedifrago e assassino, razionale nel senso più  “ stupido” del termine.
La trama è presto detta: ricordate l’Amleto, immaginate qualche variante d’autore e trasportatelo nel ventunesimo secolo a Londra o in qualsiasi altra parte del mondo,  se vi va. Ma il vero protagonista è  lui, l’essere neppure giovane, non ancora nato ieri  già abbastanza sapiente  da sbagliarsi su tante cose. Un essere colto, già  adulto per la capacità di pensare, il cui cuore combatte a fianco del “ furibondo” cuore della madre. Sembra non ci sia amore tra i due, solo legami biologici, chimici, di sangue e cordone, di una reciproca sussistenza per leggi viscerali  non filtrati dall’amore,  dal desiderio,  dall’attesa. Ma chi può  comprendere il complesso rapporto che lega una madre a un figlio e viceversa? L’essere, ancora non-essere, vede e sente tutto dal guscio materno, partecipa al criminale gioco come testimone impotente, è uno spettatore, attende gli eventi seduto tra il pubblico pur essendo parte della Compagnia. Ci sono tutti i temi dell’Amleto shakespeariano: eros e thanatos, la relazione madre e figlio, padre e figlio, le relazioni amorose poetiche e carnali, il complesso di Edipo, l’azione e la stasi ed infine la vendetta. Ma ciò che più incanta è la coscienza della realtà che delude, la vanità del tutto, le aspirazioni che si frantumano dinanzi alla  corruzione. È  l’avversità che  dà la consapevolezza, morde ma rende edotti. Questo Amleto vive nel suo guscio ma già immagina e assapora l’infinito, sa che l’infinito è doloroso, tragico, ostile, ma chiede di attraversare il varco anche se in compagnia di brutti sogni, così vuole Amleto, cosi dice Shakespeare.
Si assolve dal dovere della vendetta, poiché è  la giustizia che deve avere il monopolio della violenza, qui Shakespeare perde il controllo, ma la vendetta può avere tante facce e McEwan le riserverà  un ruolo magistrale, un tocco da maestro! Il non- nato Amleto vuole per sé  solo il pensiero e la vita  e “ il ciuffo di sillabe.. a meno che.. a meno che..è un piagnisteo di speranza”. Vuol vincere nonostante tutto, vince, in quest’opera geniale l’amore e l’emozione pur nella mostruosità, nell’orrore che si respira. Lui è  l’eroe della sopravvivenza,  colui che combatte contro un destino avverso, colui che, pur sapendo che forse non avrà la meglio,  accetta il rischio per quegli sprazzi di luce che la vita può promettere.
La lingua  è  impetuosa, incalzante, arguta, angosciante,  ironica, tutto  risuona di parole che affascinano e inebriano. Un capolavoro! McEwan fa anche denuncia sociale, toccando ogni parte del mondo, senza risparmiare nessuno argomento attuale e che qui diventa universale. Schizzi di brutture politiche e sociali elencati al ritmo di tamburo con  una leggerezza e un’amara ironia come solo i grandi sanno fare. Che altro aggiungere… solo  l’invito  all’acquisto di un biglietto in prima fila, lo spettacolo merita. Antonio D’Orrico lo ha definito un romanzo da standing ovation…con tanti applausi a scena aperta, ve l’assicuro!