Recensione a “Storia di Asta” di Jòn Kalman Stefànsson
A cura di Rosalia Mollica
Partendo dal presupposto, per nulla sbagliato, che anche l’occhio vuole la sua parte e che questo motto può essere valido anche per i libri…l’edizione Iperborea è bellissima! Il libro sembra un mattone pieno in laterizio, sì proprio un mattone, stretto e lungo, piacevole al tatto per la sua ruvidezza, i colori della copertina affascinano, la carta rispetta l’ambiente, insomma è un piacere averlo tra le mani. Se il contenuto poi soddisfa anche lo spirito, la gioia è piena. Non è facile parlare di questo lavoro, molto banalmente si potrebbe dire che è bello, e difatti lo è , anche tanto bello. Il titolo fa comprendere subito che è una biografia, di Asta appunto, giovane islandese vittima della malinconia, del senso di colpa e dell’accusa, i tre cecchini che mirano al cuore e fanno centro.
Inizia cosi l’autore: “… Siamo a Vesturbaer, il quartiere ovest di Reykjavik, all’inizio degli anni Cinquanta dello scorso secolo, e spiego com’è nato il nome Asta. Poi perdo il filo”. E difatti il filo che ci si aspetterebbe da una biografia non c’è. Stefansson, oltre che uno scrittore, diventa architetto, crea un’impalcatura originalissima, un mosaicista perché ogni tassello infine va al suo posto, trova il suo incastro. Leggendo si ha la sensazione di aprire la scatola di un puzzle per procedere alla composizione di un bel cartellone da cantastorie, episodi spezzettati in tanti quadri che illustrano in sintesi tutta la storia raccontata pian piano, quasi a puntate. Ciò che colpisce prima di tutto è proprio la tecnica di narrazione, la struttura del libro. Il racconto procede grazie a Sigvaldi padre di Asta, la madre Helga, l’amata balia , il tenebroso e indimenticabile Josef e poi Kristin, Arni e anche per la metanarrazione dell’autore, il quale si riserva alcune frazioni di libro dove parla un po’ di sé e delle difficoltà che affronta nel tracciare la storia in cui ci immerge, perdendo argutamente il filo e ammaliando. La realtà si confonde con la finzione, il narratore cambia in ogni capitolo, ma parlare di capitoli è improprio, sono più scene. Sembra di essere a teatro quando si accende l’occhio di bue su un solo personaggio tra i tanti , gli altri ci sono, immobili , non sentono cosa dice e poi, a turno, tocca a tutti .
È una biografia che non può essere raccontata se non toccando : “..anche le vite che la circondano, l’atmosfera che sostiene il cielo”. Una saga familiare che scorre tra i Fiordi Occidentali che assomigliano più ad un brano musicale che a un paesaggio, quindi impossibili da descrivere. E poi Reykjavik, Vienna come in un caleidoscopio. Chi da bambino ha posseduto un caleidoscopio può comprendere. Nel tubo magico si vedono immagini che si sovrappongono, si intersecano, si uniscono cambiando di continuo colori, forme, luci e ogni volta è qualcosa di nuovo. Tutto si mescola, si aggroviglia, varia imprevedibilmente e tu resti lì stupito e trascinato. L’unica cosa che accomuna tutti i personaggi, oltre al fatto di aver camminato assieme per un tratto più o meno lungo, è il sentimento in tutte le sue forme : l’amore, spesso difficile da riconoscere e vivere, la malinconia, il ricordo, lo smarrimento e l’impotenza di fronte alla vita. Nulla è lineare, passato e presente si intrecciano, coesistono, a dimostrazione che ciò che siamo è dato da ciò che siamo stati. Il passato è un bagaglio che ci trasciniamo e che ci trasforma nel futuro per poi svanire nel nulla. Comprendiamo allora che l’esistenza di ognuno di noi: “sembra cosi immensa da sostenere da sola il cielo, in fin dei conti non è altro che un topo che sfreccia sul pavimento della cucina in un giorno di ottobre e poi chi la vede più?”.