Recensione a “Un uomo solo” di Christopher Isherwood
A cura si Rosalia Mollica
“Ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera ..”.
Basterebbero questi pochi versi per liquidare la faccenda perché è di questo che si parla in questo sferzante romanzo di Isherwood, e Quasimodo torna in mente inevitabilmente. Le tante facce della solitudine, solitudine nella folla, l’anonimato, desiderio di essere accettato, compreso, consapevolezza che ciò è impossibile..e tanto altro . George, il professore inglese che vive in California e che è il protagonista di questo romanzo è un uomo solo nel senso più ampio del termine, è una “cosa umana per-tre-quarti” è colui che da uomo consapevole ogni mattino “Si spalma rapidamente il make-up psicologico adatto al ruolo che deve interpretare”. Ma l’isolamento è altra cosa, si è soli senza nessuno, quando non si è in compagnia nemmeno di se stessi e George è solo ma perfettamente connesso con la propria anima, con la mente e con il corpo. Tutto avviene nell’arco di un giorno, un giorno come tanti di un professore universitario. Il risveglio mattutino nella casa tristemente svuotata dell’amore che l’abitava, l’amore imperfetto “annientato tramite dolcezza” dai vicini, prodotto dell’ereditarietà, dalle ghiandole, non da condannare, ma da compatire, a volte perfino bello “soprattutto se una delle due parti è già morta, o , meglio ancora, tutte e due”. Il lavoro fra gli studenti, la lezione, uno dei tanti momenti di vanagloria, come un artista da circo, sospeso al trapezio “sotto il fascio di luce ha brillato e tremato come una stella” e dopo una volta a terra nessuno applaude. Quegli studenti schiavi del ‘dover essere’ e ai quali il “folle poter essere sussurra loro di vivere, conoscere, sperimentare meraviglie”. A loro, distaccati e indifferenti George trasmette conoscenza sapendo che gli basterebbe solo la sua testa” portata in aula a fargli lezione su un piatto “poiché poco sanno e vogliono sapere di lui. George irride dall’alto del suo cinismo, che nasconde un eccesso di sensibilità disillusa, i suoi simili: rozzi, tardi, venali, ma si sente felice di avere un posto tra loro, perché vivi. La morte di Jimmy e quella imminente dell’amica-nemica Doris lo hanno ancorato tenacemente e dolorosamente alla vita. George rifiuta il pianto poiché non si piange rumorosamente un dolore così forte, Jimmy è compianto in silenzio perché la luce e gli occhi degli altri compirebbero un sacrilegio. Il giorno avanza ed è un crescendo di voglia di vita, rinascita di un’ amicizia trascurata ma indispensabile, speranza di un nuovo amore, desiderio disperato di essere se stesso non trasfigurato dall’aridità delle convenzioni, il corpo e l’anima sperano di essere due identità non distinte . E poi… e poi arriva la notte, epilogo dello scenario quotidiano pieno di fatti naturali, ripetitivi, inaspettati, carichi di speranza come accade a tutti. Sembra una metafora della vita umana, un percorso abbreviato in 12 ore di un intero arco di vita, mattina-nascita, notte fine, in mezzo c’è il previsto e l’imprevisto. Basterebbe poco per non essere più soli, molto poco “se non mangiassimo mai soli, soffriremmo la solitudine?” forse basta così poco, lasciare “dietro di sé il pedaggio dei vestiti” e dire a chi hai davanti: “Sono come un libro che tu devi leggere. Un libro non può leggersi da solo. Non sa nemmeno qual è il suo argomento. Io non so qual è il mio argomento..” e così vivere ed ancora vivere , sperare ed amare.