Recensione al terzo romanzo di Alberto Minnella

PORTANOVA E IL CADAVERE DEL PRETE, il terzo romanzo di Alberto Minnella

Recensione di Deborah Donato3237508

«Il Mediterraneo ha la propria tragicità solare che non è quella delle nebbie. Certe sere, sul mare, ai piedi delle montagne, cade la notte sulla curva perfetta d’una piccola baia e allora sale dalle acque silenziose un angosciante senso di pienezza. In questi luoghi si può capire come i Greci abbiano parlato della isperazione solo attraverso la bellezza e quanto essa ha di opprimente. In questa infelicità dorata la tragedia giunge al sommo».

(Albert Camus, L’esilio di Elena).

 

Il romanzo di Alberto Minnella, il terzo, si apre con questa epigrafe di Camus. Quando si arriverà alla fine della lettura, si capirà bene perché l’autore ha indicato fin dal principio l’aspetto ombroso della solarità. Minnella infatti converte l’innata solarità di Ortigia nel fascino tenebroso di una città illuminata dal giallo dei lampioni, umida per acquazzoni violenti, e misteriosa per i crimini che in essa si consumano.  La vicenda inizia in A foggy day, canzone di Charles Mingus che il mangiadischi Penny manda in giro per il commissariato. Sì, mangiadischi, perché Portanova e il cadavere del prete si svolge nel 1964 e l’autore mostra un’ottima tempra filologica nel ricostruire l’ambientazione, seguire le notizie sui giornali, i modelli delle automobili, il mobilio delle case, l’Olivetti con cui si redigono i verbali.

Per Fratelli Frilli Editori esce la terza prova autoriale dello scrittore siciliano – dopo Il gioco delle sette pietre e Una mala jurnata per Portanova – che è pure la terza indagine di Paolo Portanova, un commissario che ama il jazz e le canzoni di Buscaglione, che ama lasciarsi avvolgere «dal fumo bluastro e dall’odore maschio e inconfondibile che avevano i Toscani» (p. 49). Un commissario che il suo stesso autore definisce “vigliacco”, un perdente, ma un uomo onesto. Portanova si presenta così ai lettori:

«Sbirciai la mia faccia nello specchio. Chi era quel vecchiaccio che mi guardava? La barba arruffata era più lunga del solito; la peluria rossa, un tempo uniforme, adesso aveva striature bianche sui baffi e sul mento: era il segno che pigghiarisi di collere negli anni aveva avuto il suo effetto. I capelli, che sembravano diminuire ogni santa mattina, mi davano la sensazione tremenda di essere diventato preciso a mio padre. Con il palmo della mano provai a rassettarli invano. Un gesto ridicolo di vanità che non m’apparteneva.

Sembrava non esserci più traccia del Paolo che conoscevo» (p. 10).

In questa situazione di precario equilibrio, la fabula poliziesca del romanzo di Minnella si intreccia con la crisi esistenziale e matrimoniale del protagonista, irrompe la telefonata che finge da incipit delle indagini: un prete spogliato, sì si scherza con l’aggettivo ma il cadavere è trovato realmente nudo, precipitato dalla casa vuota di un pregiudicato, Natale Scimeca. Con l’avvio delle indagini, impariamo a conoscere uno dei talenti della penna di Minnella: la descrizione degli ambienti. Con pochi tratti, riesce a colorare gli oggetti, a trasferire loro tonalità emotiva:

«L’appartamento, maleodorante e impolverato, era stato messo sottosopra dagli agenti. Appena misi piede lì dentro una leggera sensazione di tristezza mi calò addosso. Attraverso un breve corridoio, andando a destra, si accedeva alla cucina, piccola e rettangolare, con appesi alla parete di sinistra due armadietti pensili color caffellatte che, dalla parte opposta, facevano paio con i fornelli, sopra i quali trovammo una pentola ridotta ai minimi termini. Andandoci vicino sentii puzza di cavolo bollito, a testimoniare l’ultimo pasto consumato da Scimeca. Sotto agli armadietti c’era un tavolino che al massimo avrebbe potuto ospitare due commensali; ad andarci stretti, anche tre, forse. L’abbandono in cui versava era testimoniato dalle stoviglie sporche nel lavello da chissà quante settimane» (p. 36).

Ambienti polverosi e bui, una «pioggia carica di sabbia» che imbratta Ortigia, tutto si fa più carico e pesante, i misteri si infittiscono perché la morte del prete si intreccia con quella di una donna. Le pagine di Minnella seguono questo intrigata trama, muovendosi – e a volte sbilanciandosi in favore della piega più intimista – fra lo scioglimento del caso e il difficile scioglimento della crisi del commissario, inseguito da sogni inquietanti, nei quali anche la lettera trovata nei vestiti della vittima, assume un monito per se stesso.

«Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio» (p. 41).

Il nome del commissario, “Paolo”, ritorna come un refrain nelle citazioni bibliche e i sogni in cui egli subisce interrogatori da un uomo misterioso, riempiono il lettore di una tensione che risulta alleggerita dal linguaggio che Minnella usa. Il linguaggio di questo e degli altri romanzi, infatti, è un miscuglio di italiano odierno e contemporaneo agli eventi trattati, di parole e costruzione del periodo dialettale; un miscuglio, che non arriva al pastiche del siciliano pur utilizzandone alcuni vocaboli non solamente nelle parti dialogate. Vi è, comunque, nella pur bella intuizione di usare questo lessico così meticcio, la necessità di trovare un controllo del lato emotivo del testo: spesso le parti dialettali diventano un intermezzo ironico, che abbassa la parte lirica che l’autore stava sviluppando.

I capitoli comunque si avvicendano in modo fluido e il lettore riesce a non distrarsi, avvinto non solo dalla trama del giallo, ma pure dalle atmosfere che l’autore riesce a creare. Si entra nelle ritualità di Portanova: siamo accanto a lui quando si siede in poltrona e si ammezza un toscano, degustiamo con lui i liquori, sentiamo con partecipazione le sue palpitazioni per la bella vicina di casa.

«Dov’ero finito?

La rabbia e la paura avevano fatto il loro dovere.

Allora, provai a concentrarmi ancora sulle parole di San Paolo, ma tutte le volte la mente mi si chiudeva a riccio e le mani scattavano verso i sigari e la bottiglia» (p. 134).

Questo stato si protrarrà fino alla conclusione del romanzo, in un climax che non avrà scioglimento e sul quale, com’è ovvio, non è lecito fare anticipazioni. La conclusione, in realtà, non è tale, e già preannuncia nella sua non soluzione un nuovo capitolo delle indagini del commissario.