REPORT 7° incontro -Lab di lettura Pickwick

Il tema di ieri sera era quello del MOSTRO, un tema che al di là di ogni previsione ci ha dato la possibilità di parlare tantissimo, affrontando argomenti vari: la follia, la deformità, l’omicidio, la paura del diverso identificato con il nemico, la facilità dei mezzi di comunicazione di creare “mostri”. Più che in altre occasioni abbiamo portato le nostre esperienze personali e abbiamo constatato ancora una volta quanto la lettura collettiva sia fonte di arricchimento reciproco. Le cose dette sono state talmente tante che ho deciso di far parlare i testi o almeno quelli che ho trovato. Spero che gli altri pubblichino i brani mancanti.

Da “L’altra verità – Diario di una diversa” di Alda Merini

Le notti, per noi malati, erano particolarmente dolorose. Grida, invettive, sussulti strani, miagolii, come se si fosse in un connubio di streghe. I farmaci che ci propinavano erano o troppo tenui  o sbagliati, per cui pochissime di noi riuscivano a dormire. D’altra parte, di giorno non facevamo nulla, se la sera si era tentati di rimanere alzati un po’, subito venivamo redarguiti aspramente e mandati a letto con le “fascette”. Che cosa erano le fascette? Nient’altro che delle corde di grossa canapa, dentro le quali ci infilavano i piedi e le mani perché non potessimo scendere dai lettucci. Urlare sì, potevamo; nessuno ce lo impediva, tanto che qualche volta un malato a furia di urlare finiva col ricadere esangue sul proprio letto. Ricordo di una paziente che rimase immersa nelle proprie feci urlando a squarciagola per giorni e giorni finché non venne slegata e rimandata in libertà.

Nel centro del giardino c’era anche un’altra appendice dell’ospedale: il ricovero delle cavie, dove si facevano continue ricerche sul cervello umano. Io mi sono addentrata in quel posto poche volte, quanto basta per provarne un orrore incredibile. Bestie lobotomizzate, castrate e, dappertutto, un senso di innaturale forza malvagia, ridotta al massimo della sua violenza. Certe bestie, sotto i veleni delle medicine, avevano perso del tutto la loro identità. E dei gatti parevano tigri feroci, dei topolini erano presi da sindromi strane che li facevano girare su se stessi senza posa alcuna né alcun senso di conservazione. L’uomo che dirigeva questo brutto traffico era un po’ eguale alle sue bestie, pareva un lobotomizzato; unto e untuoso, cercava di arraffare qualche malata e portarla di sotto per “montarla”, come diceva lui. A me faceva talmente ribrezzo che una volta giunsi a sputargli in faccia. La cosa non me la perdonò più, e ogni volta che passavo di lì mi guardava con aria sempre più torva.

Le facce delle degenti erano a dir poco mostruose. Avevano perso ogni tratto femminile e guardandole (a poco a poco mi ci avvezzai) mi venivano in mente le streghe del Macbeth. Di fatto costoro non facevano altro che borbottare tutto il giorno intorno a degli strani marchingegni dovuti o voluti dalle loro fantasie. Facce con larghe chiazze di vino, unghie adunche, grossi vestaglioni che portavano a mo’ di grembiule, e un ghigno feroce tra le labbra che ti faceva accapponare la pelle. Ma lì di trauma non ce n’era e a me che ero così spaurita non facevano che venire in mente le storielle macabre di Banco. Parevano tutte uscite da un raduno infernale. Ed io, non so, ma mi sono domandata spesso come mai le malate di mente debbano avere volti così brutti e così inauditi e se siano i farmaci a procurare quelle sembianze, della qual cosa sono quasi sicura.

Al principio del ’65, quando ancora le leggi erano molto restrittive, ai malati era consentito così poco che nemmeno gli si dava la libertà nel lavarsi. E’ chiaro che il malato di mente non ha nessuna voglia di rendersi bello proprio perché, essendo stato strappato via dalla società, non ha più voglia di avere contatti con l’esterno. Allora si ricorreva ad un mezzo coercitivo. Venivamo tutti allineati davanti ad un lavello comune, denudati e lavati da pesanti infermiere che ci facevano poi asciugare in un lenzuolo eguale per capienza ad un sudario, e per giunta lercio e puzzolente. Alle più vecchie facevano tremare le flaccide carni e così, nude come erano, facevano veramente ribrezzo. La prima volta che dovetti sottostare a questa rigida disciplina svenni, e per lo schifo e perché ero così indebolita dalla degenza che non mi reggevo più in piedi. Ci allineavano tutte davanti ad un lavello comune con i piedi nudi per terra fissi nelle pozzanghere d’acqua. Poi ci strappavano di dosso i pochi indumenti (il camicione dell’ospedale di lino grezzo eguale per tutti, che aveva dei cordoncini ai lati e che lasciava filtrare aria da tutte le parti). Poi le infermiere passavano ad insaponarci anche nelle parti più intime e ci asciugavano in un comune lenzuolo lercio. Le più vecchie cadevano a terra per il modo maldestro con cui venivano trattate. Alcune scivolavano, altre battevano pesantemente la testa. Io, ogni mattina, davanti a quel lavello e all’odore terribile del luogo, svenivo e venivo ripresa con  male parole e buttata sotto l’acqua diaccia. Si veniva fuori da quello strano inferno già stordite, con la riprova che la nostra demenza rimaneva un fatto inspiegabile e che non avrebbe avuto nessuna verità razionale.

Poi ci allineavano su delle pancacce sordide, accanto a dei finestroni enormi e lì stavamo a guardare per terra come delle colpevoli, ammazzate dalla indifferenza, senza una parola, un sorriso, un dialogo qualunque. Io avevo sete di verità e non capivo come ero potuta capitare in quell’inferno. Disposta naturalmente al razionalismo, avvezza a cercare il perché di tutte le cose, ero spaventata dall’oscenità dell’ignoranza che si adoperava in quei luoghi. Il demente viene considerato “incapace di intendere e di volere”. Eppure sotto la diagnosi serpeggiava quieta la mia anima dolce, rasserenante, un’anima che non era stata mai tanto luminosa e vitale, e a volte, per consolarmi, pensavo che quella brutta vestaglia azzurra fosse il saio di San Francesco e che io di proposito l’avessi scelto per umiliarmi.

Così in questo modo gentile adoperai il silenzio, e mi venne fatto di incontrarvi il mio io, quell’io identico a sé stesso, che non voleva, non poteva morire.

La sentinella di Fredrick Brown

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame freddo ed era lontano 50mila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d’anni, quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia… crudeli schifosi, ripugnanti mostri. Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto.

Lontano 50mila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.

E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.

Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante e senza squame…

Il mostro di S.Bersani

Potete ascoltarla qui: http://www.youtube.com/watch?v=ZHQljsQX_FU&feature=fvw

Ecco spuntare da un mondo lontano l’ultimo mostro peloso e gigante
l’unico esempio rimasto di mostro a sei zampe
Quanto mi piace vederlo passare, cosa farei per poterlo toccare
io cosa farei…
Dicono che sia capace di uccidere un uomo
non per difendersi, solo perché non è buono
Dicono loro che sono scienziati affermati
classe di uomini scelti e di gente sicura
Ma l’unica cosa evidente è che il mostro ha paura
il mostro ha paura…
E’ alla ricerca di un posto lontano dal male
certo una grotta in un bosco sarebbe ideale
ma l’unico posto tranquillo è quel vecchio cortile
l’unico spazio che c’è per un grande animale
Dicono “Siamo in diretta…” lo scoop è servito
“…questa è la tana del mostro, l’abbiamo seguito”
Dicono loro che sono cronisti d’assalto
classe di uomini scelti di gente sicura
Ma l’unica cosa evidente
l’unica cosa evidente è che il mostro ha paura
il mostro ha paura…
Basta passare la voce che il mostro è cattivo
poi aspettare un minuto e un esercito arriva
bombe e fucili ci siamo, l’attacco è totale
gruppi speciali circondano il vecchio cortile
Dicono che sono pronti a sparare sul mostro
“Lo prenderemo sia vivo che morto sul posto !”
Dicono loro che sono soldati d’azione
classe di uomini scelti e di gente sicura
ma l’unica cosa evidente è che il mostro ha paura
il mostro ha paura…
Vorrebbe farsi un letargo e prova a chiudere gli occhi
ma lui sa che il letargo viene solo d’inverno
riapre gli occhi sul mondo, questo mondo di mostri
che hanno solo due zampe ma sono molto più mostri
Gli resta solo una cosa
chiamare il suo mondo lontano
lo fa con tutto il suo fiato, ma sempre più piano…
Vorrei poterlo salvare, portarlo via con un treno
lasciarlo dopo la pioggia, là sotto l’arcobaleno..

Un incrocio di F. Kafka (potete ascoltarlo qui: http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/PublishingBlock-2b42d7b0-139f-4ea9-b478-85156dc8ed9a.html)

Il teorema di Almodovar di A.C.Ros

Medea di Euripide (http://www.readme.it/libri/Classici%20Greci/Medea.shtml)

Cuore di cane di M.A. Bulgacov

La casa di Asterione di  J.L. Borges (https://www.terremotidicarta.it/cambiando-la-prospettivaforse-i-mostri-siamo-noi)

Comments (2)

fadetteDicembre 8th, 2010 at 17:41

Credo proprio di aver perso un bell’incontro; non conoscevo “La sentinella” è davvero interessante: chi l’ha portato?
Adesso mi documento sugli altri brani, complimenti davvero, a tutti!

lagilinaDicembre 8th, 2010 at 23:04

L’ha portato Novella e anche a me è piaciuto molto.
In effetti ti sei persa un bell’incontro.
:-)