DELLA SERIE: CARTOLINE DALL’ INFERNO – MA CON AUGURI DI BUON NATALE PER TUTTI DA FRANCESCO

Nell’ ambito dell’ incontro di lettura consapevole del 17 dicembre, in cui si è tratto spunto dal verbo tagliare e dai suoi sinonimi, uno dei brani portati all’ attenzione dei partecipanti è consistito nei versi 108-150 di Inferno, XXXIII.
In esso, subito dopo aver lasciato il conte Ugolino, Dante fa la conoscenza del romagnolo frate Alberigo, anch’ egli immerso nel lago ghiacciato formato dal fiume infernale Cocito, ma in posizione supina e nello più stretto cerchio della Tolomea (il penultimo del regno infernale, dove sono puniti i traditori degli ospiti).
I peccatori della Tolomea, come frate Alberigo spiega a Dante con amaro sarcasmo, godono di uno speciale privilegio. La gravità del delitto da essi perpetrato è tale che, non appena commesso il tradimento, la loro anima viene precipitata all’ inferno senza che la parca Atropo abbia reciso il filo della vita, mentre nel corpo e nelle fattezze del peccatore s’ insedia un demonio, il quale continua a vivere sulla terra in guisa umana. Per questo Dante ritiene inizialmente che frate Alberigo menta quando gli dice che dietro di lui vi è il dannato genovese Branca Doria, che con l’ aiuto di un servo uccise il suocero a un banchetto (difatti Branca Doria morirà non prima del 1325, quindi ben oltre la data, il 1300, in cui il poeta ambienta il proprio viaggio nell’ al di là).
Siamo nello stesso canto del conte Ugolino, uno tra i più noti e studiati di tutto il poema, sicché gli intimi nessi tra l’ episodio del conte e quello di frate Alberigo sono stati puntualmente evidenziati dai critici. E’ come se l’ inferno stesso sconfinasse nella terra tanto quanto quest’ ultima, incessantemente, si rovescia nel regno di Lucifero, tale è la forza dilagante dell’ odio degli uomini (Ramat): macchiatasi dei più atroci misfatti, l’ umanità traviata trascina con sé, nell’ al di là, quel rancore inestinguibile con cui Ugolino roderà in eterno il teschio dell’ arcivescovo Ruggeri, mentre i vivi, sulla terra, considerano loro simili frate Alberigo e Branca D’ Oria, già sprofondati all’ inferno anche se i loro corpi, abitati da diavoli, mangiano, devono, dormono e vestono indumenti.

Buona lettura e buon Natale a tutti da Francesco.

E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli,
tanto che data v’è l’ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’io sfoghi ‘l duol che ‘l cor m’impregna,
un poco, pria che ‘l pianto si raggeli».
Per ch’io a lui: <<Se vuo’ ch’ i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».
«Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come ‘l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scienza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’ Atropòs mossa le dea.
E perché tu più volentier mi rade
le ‘nvetriate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade
come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso».
«Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».
«Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancor giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ‘l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano
(Inferno, 33, 108-150).