Editoriale Giugno: Servire

di Antonio Spadaro

Servire è un verbo potenzialmente fastidioso. Forse non esiste un verbo con una simile estensione di significati, soprattutto se consideriamo il suo sostantivo corrispondente: servizio/servizi. Può mai una parola che indica il culto, i “servizi religiosi” (services, in inglese), indicare anche il gabinetto? Può mai un verbo che indica il fare del bene, il “mettersi al servizio” indicare asservimento e schiavitù? Che cos’è questo verbo? Qual è il suo mistero che lo rende così strano e flessibile e ambiguo?

Certamente l’idea di “servo” vive accanto a quella corrispettiva di “padrone”: da questa antitesi nasce quella tra “servire” e “spadroneggiare”. Non però quella tra servire e “padroneggiare”. Le cose si complicano ulteriormente, dunque. E forse però proprio qui troviamo una prima chiave di lettura dell’ambiguità del “servire”…

Chi spadroneggia è colui che esercita un ruolo statico e definitorio sulla realtà. Chi spadroneggia si impone e dà un ordine stabile al mondo che lo circonda: e questo ordine è… se stesso. Chi spadroneggia non è il creatore di una forma, ma l’impositore di un modello dal quale non si può sfuggire. Il servo in questo caso è colui che si sottomette e rientra in questo modello. Servire, dunque, significa essere schiavi, rientrare pienamente in questa logica statica. Da qui tutti i significati deleteri e negativi dell’asservimento.

Chi padroneggia invece è colui che usa con “padronanza”, è colui che sa adeguarsi a qualcosa (una lingua da parlare, una tecnica da usare,…) a tal punto che il suo atteggiamento diviene obbedienza creativa, competenza, abilità. Non c’è asservimento qui, dunque, perché l’oggetto (la lingua, la tecnica, l’arte,…) non vive di una dialettica servo/padrone, ma di progressiva connaturalità. E’ da questa dialettica in cui soggetto e oggetto si confondono che nasce il significato più virtuoso di servire con tutte le sue connotazioni.

Servire una persona, ad esempio, aiutandola a mangiare se indigente, a lavarsi se impedita, etc… non significa essere spadroneggiati da quella persona, ma essere con lei in una relazione di obbedienza creativa, di ascolto profondo, e dunque di adeguamento servizievole, pienamente adatto e utile in quella circostanza. Servire aiutando una persona non abile a nutrirsi da sola significa “padroneggiare” una situazione e se stessi in ordine a quella situazione. I servizi religiosi vivono in questo clima in cui il culto risponde a una obbedienza creativa e personale e non a un modello rigido e freddo di annichilante adorazione. Ma così anche i servizi legati ad attività con persone. Anche le persone “di servizio”, inservienti, agiscono bene se “padroneggiano” la situazione a loro affidata. E la stessa relazione tra il datore di lavoro e la persona di servizio vive di una dialettica di adattamenti tra possibilità ed esigenze.

Ma anche il rapporto migliore con le cose vive di questo atteggiamento. Servirsi di una penna, di un martello, di una saponetta, significa costruire con gli oggetti una relazione non statica e dominante, ma un rapporto dinamico, che vive di adattamenti funzionali e progressivi. La nostra vita quotidiana è piena di piccoli oggetti, di piccole cose che ci circondano e delle quali ci serviamo. In realtà il rapporto concreto con le cose è il luogo in cui si gioca molta parte della nostra vita, giorno per giorno. Il significato della nostra stessa esistenza si gioca anche nel modo in cui noi ci serviamo degli oggetti.

In realtà il verbo servire, così ambiguo, vive di molte tensioni. Il suo significato migliore è accostabile a quello inglese di “to play”: i suoi significato di giocare e suonare rendono bene sia il quadro delle regole dentro le quali stare sia la dimensione dinamica e creativa dell’esecuzione (anche “eseguire” è un altro verbo ambiguo esattamente come “servire”, infatti!).

L’arte, in questo senso, è un modo di servire…