“Le coccinelle non hanno paura”( Stefano Corbetta, Morellini editore)

Recensione  di Deborah Donato  (deborahdonato.wordpress.com)

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La fotografia è «una battaglia contro l’idea che siamo tutti destinati a scomparire» diceva Robert Doisneau e questa frase (con la relativa avvertenza che questa battaglia “È pura follia”) si trova in epigrafe al romanzo di Stefano Corbetta, seguita da una tratta da Il mito di Sisifo di Albert Camus.

Il protagonista de Le coccinelle non hanno paura, infatti, è un fotografo che diviene Sisifo per la fatica che gli aspetta: accettare di dovere a breve morire. Teo ha un tumore al cervello e condivide questa notizia solo con Luca, il suo amico fedele, e con la moglie di lui, Elena. Per il resto, attua un progressivo allontanamento dalla vita: si licenzia, vive isolato, sceglie di accogliere la morte in solitudine. Teo «vive in una zona franca, nessuna scadenza a lungo termine, niente multe, bollette, nessun dovere nei confronti di nessuno a parte se stesso». L’esercizio del morire, in un certo misterioso senso che Corbetta mostra, diventa un esercizio di libertà, di allontanamento, cioè, dal senso comune, dai legacci che spesso tormentano e angustiano l’esistenza.

Tuttavia, vi è un’unica realtà in grado di posticipare questo progressivo allontanamento dalla vita: l’amore. Esso appare nelle vesti di Arianna, una psicologa che per sbarcare il lunario fa anche la commessa nel negozio in cui Teo compra le t-shirt nere che avranno un ruolo nello scandire il tempo che lo separa dalla morte (e che spiegano anche il senso della bella copertina).

Ma a tenere aggrappato alla vita Teo, oltre al “filo” di Arianna, è una storia in cui si imbatte casualmente e che vuole riportare alla luce: è la storia di un amore vissuto molti decenni prima da Grazia e dal signor P., che a sua volta rimanda alla vicenda di Guido, in una doppia cornice che in alcuni momenti fa perdere il mordente alla storia principale, ma che inscatola tre storie che si intrecciano per i temi che le alimentano: l’amore non vissuto fino in fondo, la morte, la scomparsa, la ricerca di senso.

Sono temi talmente importanti ed essenziali, che sarebbe stato facile cadere nella retorica del dramma o dell’amore salvifico, come anche trovarsi davanti a un bivio di un finale con vocazione religiosa o con chiusura nichilista. Ciò che ho apprezzato particolarmente, invece, nella scrittura di Stefano Corbetta è avere tenuto il controllo sulla penna, non essersi concesso mai sbavature emozionali o ricerca del facile consenso con parole strappalacrime (nonostante l’atmosfera lo avrebbe accordato). Lo stile è asciutto e ci sembra che in esso sia traslato il carattere del protagonista, così austero, che si concede l’unica emozione del vedere e del registrare con gli occhi e con l’obiettivo della macchina fotografica il gesto che dà compiutezza alla vita: «Ho fatto milioni di chilometri con una macchina fotografica al collo, ho lasciato andare la donna che mi amava e che mi aspettava a casa mentre io scattavo fotografie di cui non mi importava niente. E ora so cosa manca. Perché quando il tuo giorno si avvicina pensi che tutto quello che hai fatto e quello che avresti dovuto fare, quello che hai capito e quello che non capirai mai, ha senso solo se realizzi quel gesto. L’ho cercato nel mio passato ma non c’è traccia. Arianna dice che i finali delle storie non sono così importanti. Forse ha ragione, ma io quel gesto non l’ho mai compiuto e si dà il caso che per me la fine si avvicina».

Sì, Arianna – un personaggio pieno, solare e vero, perché uno dei pregi de Le coccinelle non hanno paura è una buona descrizione dei personaggi, che risultano assolutamente credibili – sostiene che i finali delle storie non sono così importanti. Eppure, il finale del romanzo di Corbetta conclude bene. L’autore prima sembra farsi da parte, per lasciare la parola a Giovanni Papini e alla felicità irrimediabile dell’incontro con Dio, poi ci consegna un’immagine finale di una «piccola coccinella che si muove lenta sulla superficie liscia del finestrino». Le coccinelle, come si dice in un dialogo tra Teo e un bambino nel trentacinquesimo capitolo, non hanno paura «perché sono belle, bellissime. E sanno di esserlo. Nessuno ucciderebbe una coccinella».

Una variazione sul tema dostoevskjiano che la bellezza salverà il mondo, perché la bellezza è salva, non muore, al pari di quella coccinella che sul finale appare a Luca, l’amico disperato di Teo, come la presenza di un’anima immortale.