Mescolare: un verbo, un gesto, un’immagine – Esercizi

 

‘U SIGNURI’ E I GELSOMINI
(di Rosa Sturniolo)

Era stato un anno molto impegnativo per Cristina, aveva la netta sensazione che tutte le sue certezze fossero in crisi. La sua vita affettiva, il lavoro, le amicizie, tutte le sue relazioni “storiche” erano ormai come delle scatole, belle da vedersi, ma vuote. Sentiva che doveva trovare un senso nuovo alla sua vita, sentiva che a quelle scatole doveva trovare un contenuto di novità, di gioia, di freschezza, di serenità, tutte cose che capiva di aver perso per strada. Non sapeva ancora come, ma doveva cercare dentro di sé la soluzione giusta.
Senza troppi sforzi, la soluzione si presentò ai suoi occhi per caso. Una visita, infatti, presso l’agenzia di viaggi di cui era cliente, le permise di acquisire vari depliant, con interessanti proposte di viaggio, tra cui una guida a luoghi religiosi (conventi in particolare) ristrutturati in modo da offrire vacanze confortevoli e alternative. Cristina portò tutto il materiale pubblicitario a casa e dopo aver cenato, iniziò a sfogliare i vari cataloghi, ma impercettibilmente la sua attenzione era attirata dal piccolo catalogo sul turismo religioso. Da anni, infatti, molti ordini religiosi offrivano ai turisti la possibilità di essere ospiti di quelli che una volta erano conventi ricchi di storia e di monaci e che la crisi delle vocazioni, aveva lasciato vuoti di persone e spiritualità. Così, per necessità anche economiche, i frati avevano aperto le loro case, offrendo silenzio, luoghi unici e buon cibo ai turisti in cerca di una vacanza “alternativa”. Cristina pensò che era proprio quella la vacanza che le serviva, doveva riflettere su se stessa, sulle tante cose in sospeso della sua vita e poi stare in mezzo alla natura e mangiare cose genuine sarebbe stato anche salutare. Detto fatto, abbandonò le altre proposte di vacanza e si tuffò nel catalogo “dei preti”, come Cristina volle chiamarlo. Fu colpita da un piccolo convento di frati francescani, incastonato tra i monti delle Madonie, che offriva ospitalità nella pace dei boschi, ma non era molto lontano dallo splendido mare di Cefalù….nel caso, pensò Cristina, fosse andata in “overdose” di silenzio. Quando chiamò per prenotare, frate Angelo, il frate “addetto” all’accoglienza, le disse che, per il periodo scelto da Cristina, era arrivata a prenotare giusto l’ultima “cella”, così definì la stanza, e suggerì cosa doveva portare con sé, visto che l’ospitalità sarebbe stata davvero essenziale.
Per fortuna, le ultime due settimane di lavoro passarono presto e quando Cristina si trovò sul bus che da Cefalù la portava a Gibilmanna si sentì sollevata e curiosa di scoprire i luoghi che aveva scelto come meta delle sue agognate ferie. A mano a mano che il bus si inerpicava per le strette curve della strada, Cristina guardava fuori dal finestrino e il suo sguardo si perdeva dentro un “oceano” di verde costituito da alberi di varie specie come querce, castagni, faggi e poi macchie di ginestra che facevano contrasto con un cielo azzurro e libero da nuvole. A Cefalù, sul bus con lei era salita una coppia di signori anziani molto distinti, che sembravano in confidenza con l’autista, con il quale conversavano sin dalla partenza e che la guardavano incuriositi. Il bus si fermò, dopo una serie interminabile di tornanti e gli occhi di Cristina furono rapiti dalla bellezza del Santuario dedicato alla Madonna di Gibilmanna e dalla piazza che accoglieva i visitatori come in un abbraccio. Tutto intorno solo boschi a perdita d’occhio e un cielo di un azzurro mai visto. Sia lei che gli anziani coniugi furono accolti da frate Angelo che gestiva l’arrivo degli ospiti, accompagnandoli nelle “celle”, ovvero le antiche celle dei monaci, ristrutturate a stanze per ospitalità e che spiegava gli orari e le regole per la permanenza. Dopo l’arrivo e la sistemazione nella sua “cella”, una piccola stanza arredata in maniera essenziale, Cristina fece una doccia, pranzò e poi andò a riposare. Si svegliò dopo un paio di ore con un “rumore” che non sentiva da tempo: il silenzio, sì il silenzio abitato dal vento tra le chiome degli alberi, dalle cicale e da qualche cinguettio di uccellini che si godevano l’ombra del chiostro. Chiuse gli occhi per concentrarsi su quel silenzio così nuovo per lei e così desiderabile, quel silenzio non vuoto, ma pieno di vita, tanto che ebbe voglia di alzarsi e scoprire meglio il luogo. Uscendo dal convento si trovò nella piazza assolata e deserta, si accorse che la porta della chiesa era aperta, così volle entrare per vedere la famosa statua della Madonna di Gibilmanna opera del Gagini. Entrando, le sembrò di sentire un lamento, guardò verso l’altare centrale, e vide seduto proprio lì davanti, un frate molto anziano, con una lunga barba bianca, che stava pregando, ma quella preghiera sembrava un lamento all’inizio incomprensibile, poi….”Ave Maria, gratia plena….Patre Nostru….Gloria ‘o Patri, ‘o Figghiu,’o Spiritu SSSantu”…era un misto di latino e siciliano che il frate recitava seguendo il ritmo del suo respiro con tutta le devozione e l’abbandono di un figlio. Cristina, in silenzio si sedette, chiuse gli occhi e cercò di seguire quel ritmo…quella preghiera le ricordava la preghiera dei monaci buddisti, quella degli Indiani d’America, quella dei rabbini e degli imam, era come se pregare, seguendo il ritmo del respiro, la mettesse in contatto con l’universo, con la sua umanità e il suo desiderio di pace. Rimase così per un po’, poi uscì senza fare rumore. Il pomeriggio filò via verso la cena, che avvenne nel refettorio, dove ritrovò la coppia di signori anziani che l’invitarono per una passeggiata subito dopo. Non avrebbe mai dimenticato lo spettacolo di un bellissimo cielo stellato, mai visto così in città, dove le luci impediscono alle stelle di essere visibili.
Quella notte Cristina dormì profondamente, come non faceva da tempo, al risveglio andò a fare la sua solita corsa mattutina e correndo sentì entrare nei suoi polmoni l’aria pulita di quel bosco, assaporando una nuova sensazione di libertà. Prima di rientrare nella sua stanza, notò una donna anziana che con l’aiuto di un bastone faticosamente stava entrando in chiesa. Incuriosita la seguì e vide che la donna dopo essersi inchinata davanti all’altare con difficoltà, ma con un viso sereno si avvicinò e aiutandosi con il bastone, attirò a sé un piccolo sgabello con due scalini che stava sotto l’altare e, senza pensare al pericolo, ci salì sopra, tirò fuori dalla borsa una piccola busta di carta, la aprì e davanti al tabernacolo sparse una quantità di gelsomini che in poco tempo inebriarono di profumo la chiesa. Cristina guardava stupita questa scena e non capiva perché quella donna rischiava una caduta a quell’età, per mettere dei fiori sull’altare. Dopo che la sig.ra tornò a sedere su un banco della chiesa, non resistette alla curiosità di chiedere: “Buongiorno sig.ra, mi scusi se la disturbo, ma ho visto che ha messo i gelsomini davanti al tabernacolo e volevo sapere come mai porta i fiori sull’altare dove già i fiori ci sono?”, l’anziana donna la guardò dritta negli occhi, con i suoi occhi verdi mare, contornati da una rete di rughe, ma non per questo meno belli e le disse: “Signurina, da vent’anni ci portu i gelsomini ‘o Signuri, ogni jornu, fino a quannu la pianta li fa….’u Signuri vinni nta lu senu di Maria…Diu s’ammiscau cu la nostra povertà di criaturi, ni desi ‘a so vita pi nostri piccati e jo ci fazzu compagnia ogni jorno e ci portu i ciuri chi fannu ciaru, per onorare lu nostru Signuri e Creaturi”. Cristina, commossa, accennò a un sorriso, rimase in silenzio per un po’ e poi tornò fuori.

Mischiare
(di Sergio Busà)

Pare che il brodo primordiale sia stato il primo miscuglio della storia. Opera di un Dio o capriccio del caso, in esso si sono mischiati composti chimici organici e inorganici, dando origine alla vita sulla terra. Non è detto che ci sia una ricetta dietro; e anche quando ci fosse stata una precisa volontà di mischiare, il risultato sarebbe stato impossibile da prevedere. È l’eterogenesi dei fini, incubo dei complottisti: per quanto si tenti di controllare un’azione, non si possono determinarne gli esiti in ogni aspetto. Ci saranno sempre delle sorprese.

Mischiare è un’azione entropica, che tende verso un caos creativo. Richiama un altrove in cui i destini non sono ancora stati scritti e restano ignoti fino alla fine. Mischiamo quindi le carte in tavola, non sia mai che qualcuno bari. In modo simile, chi dipinge mischia bene i colori, le cui combinazioni sono infinite. Così come sono infiniti i piatti che si preparano in cucina, mischiando gli ingredienti, con dosi precise o con un po’ di fantasia, per nutrirsi e per il piacere del palato.

Nella confusione di una rissa invece ci si picchia, si “mmiscunu tumpulati”, per dirla in dialetto siciliano. E bisogna fare attenzione, specie di questi tempi, a non “mmiscari malatie”, a non ammalarsi e a non contagiare nessuno. L’ordine, in tutti i sensi, è evitare di mischiarsi tra la gente, perché se il puro non si confonde e non si contamina, l’impuro è frutto del miscuglio e del caos. Il caos impuro di due corpi che si mischiano in una notte d’amore, confondendosi e ritrovandosi negli sguardi reciproci, in una carezza sul viso, in due mani che si stringono. Due corpi che si abbandonano in un brivido e che, forse, danno un senso alla propria vita.

Musciria/ti
(di Margherita Puccia)

“Musciria bene che ssi mmidda!”.
Questo il grido di battaglia col quale, ogni domenica mattina, mia madre mi esortava a mescolare il sugo, cosicché non si unisse in matrimonio con la pentola!
Afferravo quindi il mio bel cucchiaio di legno e, imprimendo su di esso un movimento rotatorio perenne, iniziavo a disegnare tanti cerchi concentrici . Quel vortice attirava pian piano la mia attenzione tanto da farmi cadere in una sorta di trance, complice anche il delizioso profumo che quella “sassa” purpurea emanava.
In effetti, più che mescolare la salsa, iniziavo a mescolare pensieri, immagini e sensazioni; come il serpente emerge lentamente dalla cesta dell incantatore così questi risalivano dal fondo della pentola annebbiando il mio stato di coscienza.
Flash improvvisi: uno sguardo non ricambiato, una parola detta male, la sensazione di meritarsi un genitore diverso, la scelta sbagliata, rabbia brucente… ahi! Ecco riapparire la pentola e con lei una strana sensazione di dolore sulla mano… nulla di che, solo pomodoro saltato fuori in cerca di strade alternative, ottimo per un veloce assaggino.
Quel gorgo scoppiettante peró reclamava subito la mia attenzione… ed ecco sopraggiungere splendide risposte mai date in scenari tanto desiderati, emozioni finalmente parlanti e mazzi di chiavi per blocchi dell anima.
I sentimenti fluivano con il pomodoro, la cipolla si dissolveva tra le parole, l olio incorniciava i volti.
L arte del mescolare è un’arte meditativa, riporta a casa frammenti di te dispersi nel tempo. È un’arte alchemica, capace di fondere ciò che apparentemente di diverso alberga in noi in ciò che ci rappresenta: l Io.
E ancor oggi continuo a musciriari, e a meditare… e di domenica in domenica, sugo dopo sugo, la vita ha sempre più gusto.

Non solo ricordi.
(di Giusi Di Bella)

Uscì dalla stanza adibita ad ufficio dal gestore della caffetteria. I suoi 800 euro mensili erano già stati accreditati sul conto, lei poteva tornare quando voleva, se lo avesse voluto. Marika guardò con occhi nuovi l’ampio locale illuminato da una larga vetrata contornata da una tenda pesante a fiori, i tavolini quadrati, il bancone dietro cui Pietro sciacquava le tazze prima di riporle nella lavastoviglie. Cercò Pamela. Erano diventate amiche nei tre mesi che erano passati da quando aveva iniziato a lavorare nella caffetteria. La vide accanto al frigorifero a due ante, grande e massiccio come un lottatore di sumo, e le andò incontro. Si rese conto di sorridere come da tempo non le accadeva. Adesso aveva la somma di denaro che le occorreva.
– Così oggi hai finito? – le chiese Pamela guardandola con i suoi buoni, grandi occhi neri. Nel suo sguardo c’era un misto di tenerezza, di rimpianto e di solidarietà.
– Ho finito, Pam. Ma ciò non vuol dire che non continueremo a vederci. Non scappo via per sempre. Non sparirò.
– Sai, sono proprio curiosa di vedere la faccia di Naso sottile quando capirà che non lavori più qui.
Naso sottile. L’avevano soprannominato così quel tipo timido e smilzo, dal naso lungo e stretto simile a una vela, che tutte le mattine verso le undici veniva a prendere un caffè e un dolcetto. Era assistente nello studio dentistico a due porte dal bar. Pamela era convinta che si fosse innamorato di Marika; Marika, ad ogni battuta di Pamela al riguardo, si scherniva e sminuiva la cosa.
– Dai, Pam, sempre con questa storia. Cosa vuoi che ti dica? Mi spiace, se ne farà una ragione.
L’abbracciò e staccandosi aggiunse sorniona: “Almeno per il momento!”. Si promisero di ritrovarsi ancora.
Quattro fermate di metro e giunse a casa. Come si aspettava, dentro era buio. L’unica luce tenue proveniva dalla stanza in fondo al corridoio dove suo padre trascorreva le serate sulla sua poltrona di velluto marrone a coste che aveva visto tempi migliori. Già sapeva: avrebbe visto un uomo solo, non più giovane, non tanto vecchio, gli occhiali da lettura sul naso, la barba trascurata che veniva aggiustata ogni tre giorni: nei suoi ricordi la sentiva morbida come pelo di cincillà; sarebbe stata investita dall’aroma dolce e speziato del tabacco di pipa; conosceva bene il cerchio di luce che la lampada da terra rimandava nell’angolo, tra il comò con lo specchio e il termosifone. Entrando nella stanza, non la sorprese neppure il saluto a mezza voce che lui le ricambiò.
– Hai finito … stasera? – le chiese.
Marika sussurrò un sì e ingoiò lo sguardo serio di suo padre. Tra tutte le cose che conosceva, Marika sapeva anche che suo padre non approvava il progetto che lei aveva covato, per cui si era data da fare, che stava per realizzare. Forse era gelosia, forse attaccamento, forse persino invidia. Niente di tutto questo o tutto questo insieme, chissà. Lui fin lì non ci era mai arrivato e un tarlo gli lavorava dentro al solo pensiero di quello che stava per accadere.
Inevitabilmente lo sguardo di Marika ricadde sulla foto nella preziosa cornice d’argento martellato, l’unica esistente in casa, che suo padre aveva strategicamente appoggiato sul tavolino basso, accanto alla vecchia poltrona. Le sorrise il volto esotico di sua madre Chiyo. Oltre la foto, di lei le restavano il kimono di seta bianca ricamato a mano, indossato il giorno delle nozze, gli occhi allungati, il sangue mescolato di due razze che le circolava nelle vene e il ricordo dei racconti uditi da bambina. Anni fa, sua madre le narrava di una terra lontana, una terra dalle persone rigorose e miti, persone gentili che si inchinavano per salutare; una terra dove i giardini erano fatti di sabbia e pietre, piena di santuari e bellissimi templi, uno persino d’oro; una terra dove c’erano statue di divinità giganti, con posti dove i cervi camminavano indisturbati tra la gente. Sua madre l’aveva lasciata per amore e ormai non vi avrebbe mai fatto ritorno.
Si impose di non farsi influenzare dall’atteggiamento duro di suo padre e salì in camera. Aveva un appuntamento che rimandava da tempo e ora le occorreva solo determinazione.
Accese il computer e si portò direttamente al sito aggiunto ai Preferiti che monitorava da settimane. Tenne a portata di mano passaporto e carta di credito e cominciò l’operazione. Sentiva le gambe molli e la testa in fiamme, le mani tremavano. Marika si impose la concentrazione. Transazione eseguita. Stampò la prenotazione: tenere quel foglio in mano era il modo per cominciare a concretizzare il suo sogno, quello che inseguiva da anni e per cui aveva lavorato negli ultimi tre mesi.
Si appoggiò allo schienale della sedia. Milano – Tokio. Giappone, arrivo.