Recensione a “Lettera d’amore allo yeti” di Enrico Macioci

Recensione di Deborah Donato

dal blog: deborahdonato.wordpress.com

«Caro Yeti,

ti o visto dentro il compiuter e la tivu e il mio papà dice ce vivi far i monti e cualce volta scendi ance al mare a fare un bagno a distruggere gli stabilimenti le sedie se cualcuno fa la sirena di pompieri o polizia della mbluamza. Ti volio bene mi fai paura. Caro yeti la mia mamma se né andata da tanto tempo non torna per favore la riporti percé io li volio tanto bene. Era bellissima con il profumo di fiorellini e fazoletti alle dita. Mi dava un sacco di baci daper tutto».

È l’inizio della lettera che Nicola, quasi sei anni, scrive allo yeti, che un po’ gli fa paura ma che un po’ sente amico, o meglio che vive come l’unico in grado di fornire una speranza di rivedere la madre morta improvvisamente.In questa ambivalenza si snoda tutto il romanzo di Macioci, nell’indecidibilità che crea il mistero da cui non solo i bambini si sentono attratti. Dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva diceva Hölderlin e lo yeti rappresenta il pericolo sublimato dalla fantasia, allo stesso modo in cui lo spiazzo desolato da cui Riccardo (il padre di Nicola) si sente attratto rappresenta il luogo dell’orrore ma anche quello in cui verrà trovata la salvezza di padre e figlio.

Il romanzo si svolge in una estate – quale stagione dà più il senso del carattere effimero della gioia, della leggerezza della vacanza da se stessi, sempre minacciata da un acquazzone o dall’imminente ritorno in città? – a Colombaia, una località costiera. L’estate che stringe «nel suo abbraccio caldo e privo di memoria» conduce padre e figlio al timido tentativo di superare il trauma della morte di Lisa, la madre di Nicola, dovuto a un infarto fulminante, mentre dormiva accanto al marito. Che la morte possa insediarsi nella tranquillità di una notte in famiglia, fra la sicurezza del proprio letto, che possa spazzare  ogni progetto che l’uomo in modo velleitario fa sul futuro, è l’idea madre da cui parte non solo la trama del romanzo, ma anche la riflessione ad essa intrecciata, che acquisterà man mano sempre più respiro, fino ad arrivare, nelle pagine finali, ad uno sbocco quasi teologico.

«Adesso eravamo soli. io, mio figlio e il fantasma di mia moglie. La vita è soprattutto questione di fantasmi.

Ci trovavamo lì da una settimana e avevamo già i nostri ritmi.. Nicola mi aiutava a stendere i panni e a gettare la spazzatura, innaffiava il basilico e la menta, ripuliva con una scopetta il cortile dagli aghi, dai rami e dai pezzi di corteccia del pino […].

Ci aggrappammo l’uno all’altro; e scambiandoci ciò che possedevamo iniziammo a risalire, piano ma con regolarità».

Il romanzo è una sorta di Bildungsroman non del singolo ma della coppia padre/figlio, il cui rapporto viene indagato con profondità e tenerezza da Macioci, partendo dalla considerazione che «Chi non ha figli non conosce davvero la paura di sbagliare».

Riccardo è attanagliato dalla paura di sbagliare: parlare a Nic della madre è più giusto che lasciargli la tranquillità dell’oblio? Dare seguito alle sue fantasie sullo yeti o farlo subito entrare a patti con la realtà? Avallare la sua amicizia con l’inquietante vicino di casa, l’anziano Teodoro Inverno, oppure dare ascolto alle sue ansie e apprensioni e tenere Nicola sempre stretto a sé,  per esorcizzare la paura che anche lui possa svanire da un momento all’altro, come la moglie?

Alla fine, i due scelgono la vita, che ha i lineamenti di Simona, la bella animatrice del villaggio turistico, la complicità delle chiacchiere con Walter, il proprietario del bar sulla spiaggia (il Long John Silver), l’ambiguità del vicino di casa e infine, il ritorno all’amore con Ismaela, la misteriosa cameriera di un lido.

Sì, pensate bene: Long John Silver, Ismaela e molto Pinocchio, Lettera d’amore allo yeti non nasconde i suoi riferimenti letterari, che rimandano all’oscurità del male, alla purezza dell’infanzia, allo sforzo dell’uomo di fronteggiare il male, fino a diventare male egli stesso . Non viene citato apertamente un altro riferimento, che però mi appare una sorta di convitato di pietra: Stephen King.

Non solo per la lucida delicatezza con cui Macioci riesce a mettersi dentro lo sguardo di un bambino – cosa che King sa fare magistralmente – ma perché sceglie di usare la chiave horror per indagare problemi metafisici.

Il romanzo, che fino a metà svolgimento, sembra un romanzo realistico, il racconto di un lento e difficoltoso ritorno alla vita, nella seconda parte vira verso quello che molto semplicisticamente definisco “genere horror”. In realtà uno dei pregi di questo romanzo di Macioci è  sfuggire ad una etichettatura di genere.L’autore aveva sapientemente lasciato, come i sassolini di Pollicino, vari indizi su questa virata “horror” e questi indizi hanno contribuito alla creazione di un’atmosfera tesa, alla percezione – confortata da varie prolessi- che qualcosa sta per accadere. Nella seconda parte del romanzo, si assiste ad una accelerazione degli accadimenti e il ritmo di lettura diventa più serrato. La vicenda familiare si intreccia con una sorta di giallo legato alle sparizioni di varie persone a Colombaia. Riccardo recita male il ruolo del detective perché agisce non con lucidità, ma mosso dall’ansia paterna e dal timore che la sua fragile risalita ai bordi della vita possa essere spezzata in pochi attimi. Si susseguono i sogni terribili, angoscianti, che egli fa durante la notte, che assumono sempre di più la funzione di sogni premonitori.

«La magia è più forte della logica. La magia è più forte di tutto». Con questa frase, che rivela il ben assimilato debito kinghiano di Enrico Macioci, il lettore è invitato a lasciare le tranquille acque della verosimiglianza per  seguire finalmente lo yeti, i fantasmi, la multiforme fenomenologia del Diavolo.

Purtroppo non è consentito a un recensore di svelare le carte e dire quali colpi di scena il romanzo di Macioci riserva; posso semplicemente dire che il ritorno alla vita di Riccardo e Nicola non è l’oblio ma l’attraversamento del Negativo, fino a comprendere che il buio e la luce sono inseparabili. Riccardo ha una visione della morte, della solitudine estrema delle anime morte, in quella visione che è per lui la morte di Dio e per la bellissima figura di Teodoro (nome non casuale) Inverno è «il pianto di Dio per aver permesso il male», il protagonista non ne esce eroe, ma conquista la saggezza del limite.

Il romanzo costeggia l’orrore, poi ce lo fa scorgere in una visione quasi onirica, ma ci restituisce alla fine una speranza. Nonostante il diavolo non muoia e Riccardo e Inverno sanno che ricomparirà, l’etica del romanzo credo sia affidata alle parole del vecchio:

«Il diavolo è menzogna, e per sconfiggerlo occorre non prestargli ascolto […]

Il diavolo esiste. Il Male esiste. Io l’ho sperimentato, e anche tu. E per provare a sconfiggerlo occorre innanzitutto credere alla sua esistenza. Ma le sue parole, quelle vanno ignorate».

Teodoro crede nella sostanziale bontà dell’esistenza e il finale suggella questa fede.Allo stesso tempo, io credo che questa fede nella bontà e nella bellezza – seppure invischiata nell’oscurità – dell’esistenza fecondi lo stile di Macioci. La scrittura è limpida, le metafore preziose ma non appesantiscono mai la prosa, nonostante vi sia la percezione di un pericolo incombente, è più forte la sensazione di armonia, di bellezza che la scrittura cristallina rimanda. La malinconia non si muta mai in disperazione e questo, ma è solo un’annotazione personale, penso che sia il compito più arduo della letteratura: trasfigurare il dolore nel bello.