Esercizi Hallowreading

Cari Terremoti,

ecco a voi la selezione di alcuni esercizi che ci sono arrivati in questo fine settimana. L’esercizio era il seguente:

Lasciatevi suggestionare da questo dipinto di John Everett Millais, Autumn

Leaves (“Foglie d’autunno”-1856), e scrivete un breve racconto.

Buona lettura:

IL FUOCO DI DAISY

di Rosy Sturniolo

Daisy e sua sorella Sarah ogni pomeriggio, prima del tramonto, si recavano nel bosco. Il papà era morto alla fine dell’estate e le aveva lasciate con la mamma, senza un sostegno economico. L’autunno era arrivato all’improvviso, le giornate erano, di colpo, diventate buie e fredde e la mamma, per sbarcare il lunario, lavava e stirava i panni delle famiglie facoltose del villaggio. Per riscaldarsi, Daisy e Sarah nel pomeriggio andavano a raccogliere le foglie secche nel bosco, riempivano il loro cesto, racimolavano qualche ramo e poi tornavano a casa. Certo, il fuoco acceso con le foglie secche e qualche ciocco non durava tanto, ma almeno intiepidiva un po’ la cucina e permetteva di riscaldare un po’ di latte o una zuppa improbabile. Un pomeriggio, mentre Daisy stava riempiendo il cesto tenuto da Sarah, arrivarono Katrin e Wendy. Katrin tornava dalla sua lezione di piano, con lo spartito in mano e la sua sorellina Wendy l’accompagnava, sgranocchiando una mela. Daisy conosceva le sorelle Johnson, si vedevano la domenica in chiesa, loro con i vestiti belli ed eleganti e lei e Sarah con l’unico abito, nero per il lutto del papà. Fu difficile per Daisy sostenere lo sguardo gelido di Katrin che la guardava raccogliere le foglie secche, mentre comprese lo stupore di Wendy che non capiva cosa stessero facendo. “Ciao Daisy, non raccoglierle tutte le foglie del bosco…finirai per avvolgere di fumo il villaggio con il tuo fuoco!” sibilò beffarda Katrin. Sarah voleva piangere per la vergogna, ma Daisy, senza guardare il volto di Katrin e quasi con un sorriso le rispose:” Oh Katrin!…Non temere, è un altro il fuoco di cui dovrai preoccuparti! Sarà il fuoco della passione con cui studierò e diventerò maestra, per insegnare ai tuoi bambini che la vita ha tanti colori e che sarà bello scoprirli tutti, lasciando che ognuno li mescoli come vuole”. Katrin abbassò lo sguardo e rimase in silenzio.

LA RAGAZZA DEL TEMPO

di Nicola Zanghì

Il sole splendeva sul cimitero di Trespiano. Vi era poca gente a passeggiare accanto le lapidi in quel sabato mattina. Un uomo stava seduto su di una panchina di cemento, chiuso in se stesso, di fronte alle minuscole lastre di marmo che nascondevano i corpi cremati. Teneva i pugni chiusi e nascondeva un silenzioso pianto dietro degli occhiali da sole. I passanti non facevano caso all’uomo sulla panchina e lui non faceva caso ai passanti, li assorto in se stesso. Poco distante, un uomo insieme alla moglie annaffiava delle piante ormai stanche, e ancora più in fondo un muratore si prendeva cura di un vecchio angolo di cimitero ormai sciupato. Una ragazza dai capelli bruni, ricci, magra al punto tale da notarlo, si avvicinava alla panchina dell’uomo, lo guardava, e si sedeva accanto. La differenza di età tra i due superava abbondantemente i 30 anni, ma la scena aveva un aspetto famigliare. L’uomo rimaneva li immobile, finché la mano della giovane donna avvicinandosi al suo ginocchio, si poggiava sulla sua mano. Egli accennando un timido imbarazzo, spostava lo sguardo per rivolgerlo alla ragazza e chiedendo con fare incerto “Chi sei?”. La ragazza rispondeva “Sono la ragazza del tempo”, aggiungeva una pausa guardandolo negli occhi perplessi e continuava “E sono venuta qui per aiutarti”. L’uomo si sentiva smarrito nel sentire quelle parole, non riuscendo a comprenderne il significato. Si rivolgeva a lei dicendo “Chi sei, non capisco, perché ti avvicini a me? Credi che abbia bisogno del tuo conforto? Hai visto le mie lacrime?”. Lei rispondeva “lasciala andare. Non piangere per tua figlia, sorridi per lei”. L’uomo trasaliva e rispondeva “Chi cazzo sei? Chi ti ha mandato qui? Che ne sai tu di mia figlia”. La giovane donna senza scomporsi “So quanto l’hai amata, quanto l’ami tuttora, e so perché sei qui”. Le lacrime sparivano nel volto dell’uomo ed esso si dipingeva di rabbia “Ti ha mandato mia moglie? Chi sei tu? Perché mi parli così? Dimmelo!” E gridava nel proferire l’ultima parola. La ragazza continuava a non scomporsi e rivolgendosi all’uomo diceva “Sono qui per te. Ho bisogno che la lascia andare”. Nella mente dell’uomo nessuna deduzione logica giustificava la parola “bisogno”. Irritato diceva “Vattene! Va via! Torna da chi ti ha mandato da me!” E nel gridare queste ultime parole le spostava la mano e la spingeva via. Nel compiere questo movimento la osservava per la prima volta. La ragazza aveva dei bellissimi capelli ricci, un volto e degli occhi incantevoli, uno sguardo conosciuto. Una cicatrice solcava la sua fronte, il corpo era esile, sofferente, la pelle stanca. Nello spostare il braccio notava qualcosa che lo lasciava tramortito. La ragazza portava il nome della figlia sul proprio polso, lo stesso nome della lapide che stava di fronte ai suoi occhi. Lisa. Il volto dell’uomo sbiancava improvvisamente, ed i suoi pensieri per quanto rapidi, non riuscivano a dedurre una soluzione logica a quella coincidenza. Non restava che domandare “Perché porti il nome di mia figlia sul tuo braccio? Chi sei?”. E lei rispondeva “Quanti anni sono passati da quando l’hai seppellita?”. Con una inaspettata sincerità l’uomo rispondeva “Oggi, 17 febbraio, sono esattamente 17 anni”. Intanto l’uomo continuava ad osservarla, sotto il tatuaggio aveva delle cicatrici evidenti, di un tentativo di suicidio. Una mano sembrava portare i segni di una forte ustione. L’aspetto era meravigliosamente triste, come se il corpo fosse distrutto dalle vicissitudini. Nell’uomo iniziava a instaurarsi un senso di debolezza e di pena per quel tenero essere che l’aveva avvicinato. La ragazza lo guardava profondamente negli occhi e rispondeva con dolcezza “sono tua figlia”. Alla risposta inaspettata, il terrore passava attraverso lo sguardo dell’uomo, che non comprendeva più se si trattasse di un gioco atroce o di un attimo di assoluta irrazionalità. Rispondeva con un infuriato “Cosa cazzo dici!” e fra se desiderava ardentemente di tirarle uno schiaffo per il dolore arrecato, ma allo stesso tempo qualcosa lo tratteneva dal farlo. La ragazza diceva “perché vuoi darmi uno schiaffo? Perché non mi riconosci, quando sono esattamente come mi hai immaginato in tutti questi anni”. L’uomo rifletteva sui capelli identici a quelli della madre, lo sguardo simile a quello che vedeva ogni mattina allo specchio, il mento, le guance, tutto richiamava qualcosa di conosciuto e desiderato. Ma non poteva comunque credere a nulla di così irrazionale come il momento che stava vivendo. “Non sono qui per farmi prendere in giro da una ragazzina. Vai da un’altra parte a prenderti gioco della gente”. E continuava a guardare le sue ferite sul braccio. La ragazza abbassava lo sguardo verso le ferite e alzando il braccio verso l’uomo, così che lui potesse vederle, esclamava “questo è il giorno in cui, da solo in bagno, tenendo il rasoio in mano desiderasti ardentemente tagliarti le vene e lasciarti morire. Era una domenica mattina, di giugno. Lasciasti il rasoio e piangesti”. L’uomo esterrefatto si domandava come potesse conoscere un particolare così intimo della propria vita, dove nessun testimone, se non se stesso, avrebbe potuto raccontare come si svolsero i fatti. Forse una coincidenza. La ragazza aggiungeva “vedi questa ferita sulla fronte? Ti trovavi proprio qui, in questo cimitero, e desiderasti spaccare la tua testa li, su quella colonna, sperando che l’urto ti avrebbe ucciso sul colpo”. L’uomo ricordò quel giorno, ricordò esattamente la sensazione ma ricordò anche di non aver compiuto alcun gesto in tal senso, nemmeno un accenno di esso. “non ho fatto nulla di tutto ciò”. La ragazza rispondeva “ma l’hai desiderato dal profondo del tuo cuore. Non l’avrai fatto a te, ma l’hai fatto a me, al mio ricordo”. L’uomo gelava dal terrore nell’ascoltare la sua voce, quel tono che conosceva bene. Era terrorizzato più dal suo tono che dalle parole, ancora non riusciva a dare un senso razionale a quello che ascoltava. “Tu saresti mia figlia?”. “Si, sono tua figlia, e porto sul mio corpo l’immagine di ogni pensiero che hai avuto in questi anni, le cicatrici, il dolore, i momenti di sconforto, le lacrime. Il tuo desiderio di morire, di farti del male per superare il male della mia scomparsa. Questa è ciò che sono diventata grazie ai tuoi pensieri”. L’uomo rabbrividiva, la guardava nuovamente, e scorgeva sempre più dolore nell’aspetto della ragazza. Aveva solo 17 anni, ma appariva sofferente, consumata dalle cicatrici, dall’alcool, dalle droghe, e da ogni pensiero terribile che aveva accompagnato la sua mente negli anni trascorsi. Incredulo le diceva “Perché sei qui adesso? Perché solo adesso ti vedo?”. Lei rispondeva “Perché so cosa sei venuto a fare, e voglio impedirti di farlo”. Gli occhi dell’uomo lasciavano intuire lo stupore nel sentire la risposta e rispondeva con “Cosa sono venuto a fare? Sono venuto a piangere sulla tomba di mia figlia, come sempre”. “Sei venuto a raggiungermi. Sei venuto a farla finita, con la pistola che porti nella tua tasca”. Non poteva averla vista, nessuno poteva averla vista, rifletteva. La toccava con la sua mano destra e la trovava ancora li, ben nascosta agli occhi del mondo ma non alla sua mente. Starò sognando, pensava tra se e se, ma toccava il polso della ragazza, ed era vivo, tangibile. “Perché sei venuta adesso? Ho desiderato tante volte farla finita, perché proprio adesso?”. La ragazza senza scomporsi rispondeva “Mai prima di adesso hai voluto farla finita, non ne avresti avuto il coraggio, prima di oggi, prima di quella pistola”. L’uomo rifletteva fra se e se quanto fosse codardo, quanto il dolore lo spaventasse, e come prima di allora nessuna soluzione gli sembrasse adeguata per farla finita. Quella pistola tanto faticosamente recuperata, rappresentava un punto di svolta nei suoi intenti. Rapido e definitivo, forse indolore, forse no, ma senza via di ritorno. Alla parola papà le lacrime scesero sul volto dell’uomo. “Tu non sei mia figlia!”, gridava con rabbia. “Tu non sei mia figlia, smettila!”. E la ragazza rispondeva alzando la sua mano sinistra, e mostrando un foro sanguinante. L’uomo si scostava indietro impaurito, non capiva. “Hai appena desiderato spararmi su una mano, per sapere se fossi solo una millantatrice. Ma ogni pensiero che hai, ha un effetto su di me. Questo è ciò che mi hai fatto oggi”. Sul volto dell’uomo scorrevano e lacrime di fronte a quel mistico effetto della sua mente. DI fronte a tale prova si mostrava del tutto convinto di ciò che stava vivendo, e si inginocchiava ai piedi della ragazza e sussurrava con la poca voce che conservava. “Ti prego perdonami, perdonami figlia mia. Lisa, amore mio. Dove sei stata in questi anni, perché non sei stata accanto a me. Lisa. Ti amo figlia mia perdonami” E le lacrime ed il pianto crescevano di intensità. La ragazza faceva sollevare il padre da terra e lo faceva sedere sulla panchina. “Sono sempre stata con te, ogni giorno della tua vita. Ogni giorno in cui hai aperto gli occhi non hai fatto altro che pensare a me, così come ogni notte nella quale ti sei addormentato. Sono sempre stata accanto a te e questo lo sai bene. Hai solo dimenticato te stesso in tutto questo tempo. E senza di te, io sono nulla. Hai dimenticato tutto ciò che ti circondava, che non fossi io. Guarda quello che hai fatto a mia madre. La donna che amavi, e che mi ha cresciuto dentro di se. E adesso è sola, solo perché tu hai scelto di vivere la tua solitudine”. L’uomo non riusciva a riflettere più su cosa gli stesse accadendo, ma percepiva ogni parola, ed ogni parola entrava dentro di se, squarciando la propria anima, i propri pensieri. E d’istinto diceva “Lasciamelo fare, lascia che mi ricongiunga a te. Lascia che questa mia triste vita finisca, voglio vedere questi tuoi occhi ogni giorno, abbracciarti ogni giorno. Lascia che sacrifichi la mia vita per averti nuovamente con me”. La ragazza cambiava espressione e con sguardo più severo diceva “Non hai compreso perché sono qui. Se porrai fine alla tua vita, porrai fine anche alla mia. Io esisto solo perché esisti tu. Se la farai finita, non mi rivedrai mai più. Scomparirò da questa esistenza, e rimarrai tu a vagare in questo cimitero, al mio posto, senza più rivedermi, e senza più rivedere nulla che possa darti serenità”. L’uomo rifletteva sulle sue parole, e per qualche ragione le trovava sensate nel loro essere irrazionali. E le lacrime continuavano a cadere sul proprio volto senza freno. “Dimmi cosa posso fare per riaverti? C’è qualcosa che io possa fare? Ti prego, dimmelo”. “Puoi porre rimedio alle mie cicatrici. Curami, fammi tornare splendida, come la figlia che hai sempre desiderato. Curami cercando di vivere anche per me. Lascia che il mio ricordo viva” E puntando una mano sul petto dell’uomo, all’altezza del cuore continuava “Mi hai sempre tenuta qui dentro, e non mi hai fatto uscire, covando dolore. Lascia che io esca, parla di me, della figlia che avresti voluto fossi. Lascia che io splenda ai tuoi occhi, che possa liberarmi in cielo attraverso le tue parole. Parla di me, parla con il mondo. E perdona mia madre, e poi perdona te stesso, ed io sarò qui, più sorridente che mai ad attenderti”. E l’uomo piangeva, e piangeva ed ascoltava le parole della figlia. E le lacrime si trasformavano in grida, in dolore. Ed il dolore si tramutava in terrore e follia, e poi serenità. E la serenità calmava il lento fluire delle lacrime, mentre l’uomo abbracciava la figlia e ne stringeva l’esile corpo. E guardava la tomba e si riprometteva di rispettare la volontà della figlia. E la figlia portava ora un sorriso affascinante e guardava il padre con sguardo felice. “Adesso vado padre mio. Ti amo papà, e so quanto tu mi ami, torna da me con la gioia nel tuo cuore”. Ed alzandosi, si allontanava lentamente, con lo sguardo sempre rivolto al padre, che piangeva questa volta di gioia. Ed allontanatasi il padre si alzava in piedi, e sorrideva di gioia, e piangeva. E gridava di gioia il nome della figlia. E poi guardava la lapide con quel numero stampato, 17 febbraio, ed il nome della figlia, e sotto il suo cognome. E nel cimitero di Trespiano questa scena non veniva notata da nessuno, nemmeno dall’uomo poco distante che innaffiava i fiori, che si girava soltanto dopo aver avvertito accanto a se un chiaro colpo di pistola.

 

CHIUSURA

di Giovanna Gravina

L’inferno non fa più paura
Ora temo d’essere stretto
Tra quattro pareti
E dentro il mio petto.
Scricchiola
E sgretola tutto il mio mondo
Ecco, lo sento, precipito in fondo
In una gola, voragine scura
Senza un appiglio
Che non sia paura.
Perso
E diverso da amici lontani,
Non vedo e non stringo i cuori e le mani
Non batte con altri del tempo il respiro
È sempre lo stesso
il paesaggio che miro.

Mi marciano in furia dentro il cervello
“Io vorrei questo” ma “devo” quello,
Combattono sempre come dei lupi,
Lasciano dentro dei mostri cupi
Che invadono avidi ciascuna piega.
Esce la fata ed entra la strega
Che da maligna scuce certezze
Assesta pugni, non dà carezze.
Milioni e milioni di pezzi di carta
Mi tengono stretto, non vogliono parta
Armi di sillabe, odiate parole
Fanno sentire persone sole
E questa mia colma, fragile testa
accerchiano e pungono, lasciano pesta.
Vecchi ricordi,
angosce danzanti…
Cerco un rifugio
Che tenga al sicuro
Ma trovo davanti
Altre sconfitte, l’ennesimo muro.