Recensione a “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood

A cura di Rosalia Mollica
“Con dolore partorirai figli” ecco la prima condanna inflitta ad una donna per la colpa commessa e a partire dal libro della Genesi  l’elenco è  senza fine.
Margaret Atwood nel romanzo “Il racconto dell’ancella” immagina alla fine del ventesimo secolo la Repubblica di Galaad, una società dominata da uomini ma anche da donne carceriere, secondo regole tipiche di un regime totalitario, con mansioni ben precise e con una rigida gerarchia, in uno scenario che trae le sue origini dal vecchio testamento.  Qui le donne, fasciate da abiti che le classificano per i ruoli  loro assegnati svolgono attività diverse in un clima di paura  e di inganno: le Zie, le Mogli dei Comandanti, le Marte, le Nondonne, le Economogli e infine le Ancelle, donne vestite di rosso destinate alla procreazione, secondo il passo biblico che narra di come Rachele, non potendo procreare, fece fecondare da Giacobbe la sua serva. Una società distopica, descritta nei suoi particolari grotteschi e ridicoli, a partire dai nomi dati alle cose (Rigenerazione,  Precivaganza, Partomobile, Occhio, Custodi, Angeli, Nonbambino, Nondonne) che descrivono una struttura fittizia e paradossale tipica di ogni regime totalitario e appare a chi legge  angosciosamente realistica, così  come “1984”di Orwell.
La scrittura è scorrevole, la trama avvincente, il racconto dell’ancella Difred balza dal presente al passato con continui flashback, indotti  dal desiderio di ricordare la vita precedente per  ricavarne coraggio e salute psicofisica. Il ricordo, l’amicizia, la natura, i fiori sono elementi salvifici. La solidarietà ancora esistente tra tanti inganni  e nonostante la paura del tradimento, della delazione è una delle armi per non soccombere all’espropriazione dell’identità.  Anche l’ironia,  ove possibile, svolge questo ruolo, attraverso il distacco da ciò che altrimenti sarebbe insopportabile. “Nolite te bastardes  carborundorum”,  non consentire che i bastardi ti annientino è la frase trovata da Difred incisa nell’armadio,  forse l’ultimo grido beffardo dell’ancella che l’aveva  preceduta e  che decide di darsi la morte per tornare libera. E poi la forza purificatrice del perdono perché: “non sarai mai soggetto alla tentazione del perdono, tu uomo, come lo sarà una donna”. Ciò conduce alla consapevolezza che anche il perdono è  una forza  delle donne, chiederlo è potere ma negarlo o concederlo è un potere  forse più  grande. La ricerca spasmodica delle letture, anche di una squallida rivista patinata, disprezzata, snobbata in tempi normali  sono  un ricordo della vecchia libertà, sono un altro appiglio agognato che: “se fossero un genere commestibile  queste letture smorzerebbero l’ingordigia dell’affamato”. Quanta forza nelle donne, anche quando la storia le assoggetta, le irregimenta, le fa diventare oggetto, illudendole che sia un atto in loro difesa, per liberarle da schiavitù senza fine come se ancora dovessero espiare la colpa di aver tentato l’uomo e avergli fatto perdere il paradiso. Le donne che per il Comandante non sanno l’aritmetica, per loro uno più uno più  uno più  uno non fa quattro, fa semplicemente uno più uno più uno più uno che non è  uguale a quattro,  ciascun uno resta unico, non c’è modo di unirli né  è  possibile scambiarli l’uno con l’altro, né  sostituirli l’uno all’altro, perché conta per le donne la forza dell’individualità,  l’unicità,  il nome dato ad ogni cosa  o persona che ne rivela la sua singolarità e che è uno dei principi fondamentali del suo essere madre . Donna fonte di vita, vitale quindi,  ma proprio per questo  strumento di riproduzione tanto esaltato da renderla schiava, usata, “ protetta” solo  per questa sua imprescindibile prerogativa, una fusione di dolore e acciaio, sua condanna, sua forza.
Difred, la protagonista porta, come le sue consorelle, un patronimico di preposizione con valore possessivo seguito dal nome del Comandante al quale è stata assegnata. Perdono il loro nome originale per diventare oggetto posseduto, disumanizzate anche in ciò che c’è di più personale, il nome, poiché viene negato loro anche “ il trascurabile “.
In questo scenario apocalittico, mostruoso, angoscioso si percepiscono piccole ventate di speranza che la disumanizzazione totale non sia mai possibile, anche il Comandante, forse stanco e disilluso del mondo  che lui stesso assieme ai vertici dell’organizzazione ha creato, aspira ad un momento di umanità quando chiede solo un bacio che sia desiderato,  non è  amore poiché è  estorto con il ricatto, ma è  l’illusione di ciò che dovrebbe essere, poiché  ciò che è  normale è diventato incredibilmente impossibile. “La normalità, diceva Zia Lydia, significa  ciò  cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrarvi normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale”. Questa è  la paura più grande, abituarsi al peggio perché non si vede o non si vuol vedere . Questo romanzo rappresenta  per paradossi  ciò che potrebbe accadere o degenerare in ogni campo, come, ahinoi! la storia ci ha più  volte insegnato.  Tutto sembra da principio  apparentemente normale : “Vivevamo di abitudini. Come tutti la più parte del tempo [..] vivevamo, come al solito,  ignorando. Ignorare non è  come non sapere,  ti ci devi mettere di buona volontà”.
Ma ciò che più fa tremare ed è  di  monito a tutti è che : “ Nulla muta istantaneamente: in una vasca da bagno che si riscaldi gradatamente,  moriresti bollito senza nemmeno accorgertene”.