Sera a Cape Code (1939) – Esercizi di scrittura.

Ispirati dal genio artistico di Edward Hopper, i vostri contributi.

 

Solo un riflesso
(di Sergio Busà)

Il sole non è più alto in cielo e insieme alla sua luce disegna anche delle ombre sul viso di lei, che guarda in basso con le mani conserte, nascoste sotto i gomiti. In piedi, i capelli accuratamente sistemati dietro la nuca, un po’ grigi, o forse è solo il riflesso della luce a farli apparire tali. Indossa un vestito verde, lungo sotto il ginocchio. Si stringe come se sentisse freddo e forse davvero lo sente.

Il vento accarezza fili d’erba secca, trasformando il prato in un mare cangiante di gradazioni di giallo. L’erba è alta, da tempo nessuno la taglia intorno alla casa, che continua a stagliarsi, ogni giorno un po’ meno bianca, davanti alla foresta che, fitta d’alberi e d’oscurità, sembra avvicinarsi. Pare che i rami di un albero ormai prossimo si tendano per entrare dalla finestra aperta. Forse anche per questo entra meno luce attraverso le pieghe delle tende, bianche ma non certo abbaglianti. In compenso, non c’è una tegola fuori posto o un asse di legno non allineato. Quando arriverà l’inverno, questa casa resisterà.

Lui sta davanti alla porta d’ingresso socchiusa, seduto su uno scalino, piegato in avanti, i muscoli tesi, che risaltano molto nel suo fisico più magro che asciutto, sotto una maglietta di cotone bianca come la casa. Anche i suoi capelli sono più bianchi che altro, ma forse è solo il riflesso della luce. Allunga una mano per attirare l’attenzione del cane, volge il palmo verso l’alto, forse nell’ombra della sua mano si nasconde un biscotto. Non si sa da quanto tempo lui sia lì, con la mano tesa. Non sorride, forse non guarda il cane, forse fissa stancamente l’erba alta e pensa come fare per tagliarla.

Il cane, un Rough Collie, lo ignora, si volta, guarda altrove. Sotto l’erba si muove qualcosa, potrebbe essere un pericolo per i suoi umani, forse qualcuno sta arrivando, non è certo il momento di annusare biscotti. Può darsi. O magari, quel movimento, è solo un riflesso della luce.

 

 

Preludio
(di Francesco Furchì)

O la tenera sera che tutto avvolge col suo velo fresco e odoroso! Quando le ombre si fanno più lunghe, ma è ancora tanta la luce.

Allora gli umani, col senso segreto prima tenuto da canto, cedono a poco a poco al desiderio di scivolare nel mistero che li circonda, mistero essi stessi, nonostante le abitazioni ben fabbricate, le fogge consuete del vestire, le note abitudini e le previsioni sensate.

In qual gioco nell’erba dorata una coppia attempata segue con carezzevole sguardo l’amico a quattro zampe, mentre fruscia felice tra gli steli e accoglie la moltitudine screziata degli odori, senza respingerne alcuno?

Sulla soglia elegante di casa, appoggiati ai solidi muri, l’uomo e la donna già sentono che il limitare del bosco li chiama con voce silente, nell’aura di penombra e di brulicante frescura, preludio al balsamo dolce che a breve li libererà.

Nell’illusione adusata, nel chiuso protetto della cara dimora, nei soffici letti, il sonno gentile lascerà che siano anch’essi cane ed erba e bosco e stanze, nel mare ove tutto s’accoglie, ogni nome e ogni volto, ogni suono e colore ed essenza, ogni gioia e dolore, nel mare senza tempo che ristora di notte ogni cuore.

Finché non si torni al mattino a far finta di essere svegli, di scorgere il vero, a sapere per certo di tutto i contorni sfuggenti, il chi, dove, che cosa, il quando e il perché…

 

 

L’attesa
(di Francesco Scattareggia)

Alla fine della fitta boscaglia ecco che appare una piccola casa dai muri bianchi e una distesa di erba dorata, illuminata dalla luce del sole che sta per calare.

Un donnone fasciata da un lungo abito blu che lascia scoperto solo l’ultima parte delle gambe, sta appoggiata al muro accanto alla porta di casa, con lo sguardo rivolto in basso e le braccia conserte, in atteggiamento pensieroso.

Accanto a lei, seduto sui gradini dell’uscio di casa, un uomo, vestito di panni da lavoro, allunga la mano destra verso l’erba alta come se volesse toccarla per giocare. Il suo sguardo sembra perso nel vuoto, la sua presenza lì, su quegli scalini, è solo fisica: chissà dove sarà con i suoi pensieri.

Poco più distante un bellissimo cane, stile Lassie, con la coda ben tesa, fissa in lontananza qualcosa come se aspettasse di vedere arrivare qualcuno da un momento all’altro. Il suo è un atteggiamento più speranzoso a differenza di quello dell’uomo e della donna che sembrano stare lì più per un dovere che per una certezza che qualcuno arriverà o qualcosa accadrà.

E’ un’attesa vissuta in tre modi diversi: sono lì, a poca distanza l’uno dall’altro, ma è come se fossero in tre posti lontani, ognuno nella sua solitudine.

 

 

SALLY E JACK
(di Rosa Sturniolo)

La fine dell’estate si annunciava con una brezzolina fresca, che però non impediva a Sally e a Jack di godersi gli ultimi scampoli del sole pomeridiano. Avevano trascorso la loro giornata come sempre, ripetendo gesti e consuetudini, come la passeggiata mattutina o la lettura del giornale dopo pranzo, che però erano più monotoni da quando la loro unica figlia Amy si era trasferita in città per frequentare il college. C’era Charlie, il loro cane, a farli sentire meno soli e ad animare le loro giornate. Erano usciti sulla porta di casa per giocare con Charlie, ma Sally sentiva un po’ di freddo e pensava di rientrare in casa a prendere lo scialle di lana leggera che teneva a portata di mano. Ogni volta che si avvolgeva in quello scialle, ritornava alla sua mente il ricordo di sua zia Mary, che glielo aveva lasciato in “eredità”, visto che Sally da ragazzina le diceva sempre che le piaceva la sfumatura di verde smeraldo della lana con cui la zia lo aveva confezionato, e quindi, a forza di dire che le piaceva, la zia glielo aveva regalato.  Era speciale zia Mary, sapeva fare tutto, cucinare, cucire, ricamare, lavorare a maglia, tutto quello che poteva fare di lei una moglie perfetta, ma poiché non si era mai sposata, questi “talenti” li mise a disposizione di Sally, sua unica nipote. Andare a casa di zia Mary significava immergersi nel profumo dei biscotti preparati ogni giorno e che erano, insieme con le torte alla frutta, l’obiettivo a cui Sally puntava entrando nella cucina della zia. Sally, indossato lo scialle, tornò fuori ad osservare Jack che lanciava lontano un giocattolo a Charlie, che come tutti i cani, si premurava a scovarlo tra l’erba e a riportarlo al suo padrone. Avevano preso in casa un cane, quando Jack era andato in pensione. Aveva lavorato per 40 anni nell’ufficio postale della loro cittadina e stare a casa da pensionato, lo aveva rattristato al punto da non volerne uscire più. Amy allora, aveva pensato che la presenza di un cucciolo in casa avrebbe dato un po’ di gioia ai suoi genitori, anche in vista del suo allontanamento da casa per andare al college. E fu così che arrivò Charlie, chiamato così con il nome di un figlio maschio mai nato, che “costrinse” Jack ad occuparsi di lui e a recuperare un po’ l’interesse per la vita. Quel pomeriggio sembrava che il tempo scorresse come sempre e che nulla dovesse succedere, ma ad un certo punto Charlie si girò, puntando l’orizzonte e non ascoltando il richiamo di Jack…il cane aveva sentito che arrivava qualcuno e fissava lo sguardo, tendendo le orecchie per capire se si trattava di amici o estranei. Sally si accorse che Charlie aveva puntato l’orizzonte e cercò di vedere chi poteva arrivare alla loro casa. Sentì il suo cuore sussultare, forse era Amy che tornava, facendo loro una sorpresa? Tra poco l’avrebbe saputo e sentì che la brezzolina non era più fredda come prima.

 

 

Gli anni di Elisa
(di Margherita Puccia)

Come scorrono gli anni… ed io mi ritrovo qui, in questa vita che mi sta stretta. Vivo dentro questo consunto vestito perbenista di vellutino di seta già da troppo tempo.
Ma guardati Elisa, guardati! Come sei anonima col tuo fiero colletto clericale e la chioma così disciplinata. Soffoco all’ Odor di lacca che tutte le mattine continuo a spruzzare nell’intento di domare l’ultimo anelito di libertà che mi rimane.
Hai scelto di rimanere con lui, nella buona e nella cattiva sorte.
Guardami! Non percepisci più nemmeno il distacco dei miei occhi che ti osservano ma non ti vedono. Occhi impegnati ad immaginare la vita che vorrebbero.
Pallido, smunto, siedi, in questo splendido pomeriggio di ottobre, sull’uscio di casa e non l’abbandoni. È li che vuoi rimanere, attaccato alle tue certezze.
Mi sono sempre chiesta come siano i tuoi capelli. Tu li hai sempre rasati. Sei biondo o moro? Riccio o liscio? Ribelle o disciplinato? Che ne sai tu della tua vera natura! Che ne sai di cosa significhi libertà.
Me l’hai sempre negata. O forse me la sono sempre negata.
Adesso voglio solo godere di questo caldo vento e questa dolce luce del meriggio per fuggire dalla Mia esistenza. Dal mio corpo…
E allora potrei essere altro! Si! potrei essere Apollo! e come lui scorazzare tra l’erba e lasciare che questa brezza mi accarezzi e mi consoli.  Potrei ascoltare ogni più insignificante suono e giocare con qualsivoglia cosa susciti la mia curiosità.
E non pensare al domani.
E nemmeno all’oggi.