A colazione con … esercizi per il Natale

Per la nostra rubrica ” A colazione con..” un nuovo esercizio di scrittura: presentateci il vostro albero di natale, dategli un nome e raccontateci la sua storia. Oppure diteci cosa succede laggiù, all’interno del vostro presepe. Ok, potete anche dirci “chi” sono tutte quelle lucette assembrate o quell’angioletto che ancora non sapete dove mettere.

I vostri contributi. Grazie per averci fatto entrare nelle vostre case, sognando.

L’ULTIMO AVAMPOSTO (Esmeralda Pagano)

Non posso dire certo di amarli questi nuovi padroni di casa, mi hanno acquistato in appena cinque minuti, forse neanche mi hanno osservato, gli serviva soltanto un albero piccolo, non ingombrante, facile da allestire e smontare. Non mi ha accolto un festante comitato di benvenuto ed ho cominciato presto a conoscere il mio predecessore. Imponente, sfavillante anche se quei due continuavano a rinvangare la fatica del collazionare ramo dopo ramo, ognuno segnato da un colore mangiucchiato dal tempo, due metri che lambivano il soffitto, milleduecento luci per illuminarlo appena. Folletti, fatine, renne e campane non erano mai abbastanza. Chi avrebbe potuto competere con questa prima moglie. Rassegnato da subito. Si sarebbero stancati anche di me. Ma questo era il 2019.
Adesso li sento borbottare che quest’anno sono svogliati, che in questo Natale niente sarà come dovrebbe, ma almeno l’albero…
My name is Christmas Covid Tree. Potrei chiamarmi diversamente? Cosa dovrei temere? Al massimo una mascherina chirurgica alla sommità al posto della stella, alle mie pendici continuerò ad ospitare il presepe, magari con Giuseppe e Maria rigorosamente distanziati, anche se i padroni li sento ridere quando citano il loro parroco che considera immuni dal virus i sacri protagonisti.
Non emano aroma di abete, piuttosto olezzo di sintetico e disinfettante. Non sfavillo come gli esemplari fastidiosamente glamour dei film natalizi, mi sento invece il parente povero di Spelacchio. Ma hanno scelto me. Hanno soltanto me: l’ultimo avamposto che li àncora alla normalità. L’altro, l’illustre estinto, giace nella soffitta dai genitori di lei, chi mai adesso oserebbe andare a recuperarlo? Mi ripeto tronfio di orgoglio che sarò io a far parte dei loro ricordi, amari o malinconici, ma sono io che ho conquistato il mio angolo di finestra in questo 2020, saranno le mie luci e i miei addobbi che si affacceranno sul disordine botanico dello spazio condominiale.
Sento aprire la porta dello stanzino, scricchiolare i pioli, la vecchia scala fa capolino sul mio scaffale. Lei starnutisce e maledice la polvere, lui mugugna sulla fatica che lo attende. I padroni sono finalmente arrivati. Christmas Covid Tree va in scena.

LA LUCE DEL BAMBINELLO (Rosy Sturniolo)

“Fare il presepe non era un rito come per le altre famiglie, si faceva presto a sistemare i pastorelli, gli altri personaggi e un po’ di cotone idrofilo sulla grotta per simulare la neve che, peraltro, Teresa non aveva mai visto. In poco tempo era già tutto finito, perché i personaggi erano pochi e non c’erano ponticelli, fontane, laghetti o altri addobbi che facevano diventare certi presepi quasi dei luna park. L’angolo della casa però, dove si trovava la piccola grotta, cambiava di colore quando era completato, perché davanti al Bambinello la mamma di Teresa poneva una lampada ad olio, lampada che lei stessa preparava e che non si spegneva mai, per tutto il periodo delle festività, fino all’Epifania. Di notte, la bambina vedeva che il bagliore della fiamma era riflesso sul muro del soggiorno e dalla sua stanza lei lo riusciva a vedere, rassicurata dal fatto che se Gesù Bambino avesse avuto paura del buio, come tutti i bambini, la luce della lampada gli avrebbe tenuto compagnia. La mamma spesso pregava davanti alla grotta e cantava la ninna nanna al Bambino, con la stessa nenia che cantava alla sua bambina e Teresa era felice di pensare che quel Bambino era come lei, un Bambino con una mamma che lo protegge e lo ama. Diventata grande, Teresa ogni anno ha continuato ad accendere una lampada davanti alla grotta e a pregare perché tutti i bambini del mondo possano sentirsi rassicurati dal canto della loro mamma e dalla luce del Bambinello.

Beeeh … (Francesca Giliberto)

Beeeh, beeeh, che devo dirvi… un po’ di delusione c’è… con tutti i presepi in cui potevo capitare, sono capitata nel più “essenziale”. Così dice la padrona di casa: un presepe essenziale.
Bello è bello. I personaggi hanno abiti di stoffa e non di misera plastica. Il bastone di S. Giuseppe è addirittura di metallo! E vogliamo parlare dei turbanti e dei mantelli dei Magi?
Le luci ci sono, sì, ma le casette di cartone? Il fiume? Lo stagno? Le paperette? Il muschio? Il fruttivendolo? E soprattutto: dove cavolo è finito il pastore? Passi per il bue e l’asinello, loro se ne stavano nella stalla. Stalla… qui non c’è manco quella! Ma le pecore, le pecore necessitano di un pastore! Anche perché così pure la metafora evangelica va a farsi strabenedire! Gesù “il buon pastore”, “la pecorella smarrita”. Per non parlare del fatto che la stessa cometa fu vista dai pastori che dormivano nei pascoli e a loro l’angelo annunziò per primi la “lieta novella”, e così via. E ovviamente i pastori rappresentano la povera gente e dunque Gesù è venuto soprattutto per loro. Insomma: se mancano i pastori qui è tutto un casino!
E soprattutto…. Dove sono le altre pecore? Io qui sono sola! E a questo punto forse mi viene il dubbio che le altre pecore siano col pastore, sì lo so, è chiaro: negli altri presepi.
Sì, gli altri presepi, quelli normali, quelli con un sacco di gente, il fornaio, il pescatore, l’arrotino, il PASTORE! Poi per carità ci sono presepi dove si esagera in altro senso… Una mia collega un giorno mi ha raccontato che in un presepe dove era finita, c’era pure uno con la palla e la maglietta azzurra con il numero 10…
Comunque la situazione è questa, io sono sola, il bambino è già arrivato anche se mancano diversi giorni al Natale, i Magi pure anche se ne mancano ancora di più all’Epifania. Eppure se devo dirvi la verità, alla fine quando si è in pochi si sta pure meglio. Si apprezzano le cose semplici, un ciuffetto d’erba, un sorso d’acqua. Il pastore non c’è e posso fare quello che voglio. E posso guardarmi questa scena che mi fa commuovere ogni anno. Un bambino che è nato per salvare il mondo. Sembra una favola, e a me le favole sono sempre piaciute, soprattutto quelle senza lupo!

Spennacchio (Rosanna Fiumanò)

Lo avevano chiamato Spennacchio. Non era il suo nome di battesimo; lo aveva soprannominato così Luisa, tardivamente, quando ormai era diventato vecchio e perdeva gli aghi finti, di plastica. Da nuovo era stato semplicemente l’albero di natale. Era lì da più di mezzo secolo, avvolto nelle pagine ingiallite del Corriere della Sera, depositato nel garage e poi dimenticato insieme a tante cianfrusaglie. Prima di andare in pensione aveva avuto lunghi anni di onorato servizio. Era entrato tardivamente nella famiglia, più o meno quando Luisa avrà avuto tre anni. Era la terza figlia, nata a quindici anni di distanza dalla seconda; dopo, sarebbe arrivata Rosaria a completare questa strana famiglia, quattro figlie femmine, più un cane, non sempre lo stesso. Luisa era stata sin da piccola una bambina ribelle. Era per la sua insistenza che la madre si era decisa a comprare l’albero di natale. Il presepe non le bastava, perché Luisa era incontentabile, non era come le altre figlie, lei aveva desideri, faceva capricci, era cocciuta; voleva persino salire sulle giostra quando, una volta l’anno, veniva montata nella piazza del paese. Ne’ si accontentava di un solo giro; felice, con i suoi occhi verdi e i riccioli biondi, foltissimi, mentre girava sulla macchinina rossa, cantava, con le braccia spiegate, libero, sono libero, una canzone che aveva sentito in televisione, al festival di Sanremo e che aveva subito fatto sua. Per lei non andavano bene le canzoni dello Zecchino d’oro, notava con rammarico la madre, intravedendo, in questi segni, la prospettiva di un destino non buono per la figlia che portava il nome della suocera… Fare scendere Luisa, Luisotta, come la chiamava il padre, dalla macchinina rossa, era una impresa non facile. Tanto più che c’era sempre qualcuno a garantirle un altro giro: la sorella Ada, in primis, che stava sempre dalla sua parte e la proteggeva dagli strali materni, ma anche qualche amico della sorella che la incitava a cantare e applaudiva le sue esibizioni canore mentre la giostra girava. Luisa, era simpatica proprio a tutti e tutti le volevano bene. Alla fiera di San Pietro, patrono del paese, persino l’ambulante che lanciava in aria i piatti come il giocoliere di un circo, persino lui, era rimasto colpito da quella bambina che lo guardava ammirata, gli occhi sgranati, pieni di stupore per quel magnifico gioco di piatti volanti e le aveva donato una tazza da latte sbeccata, appena appena; gliel’aveva regalata così, senza motivo. Anche all’asilo Luisa era la benvoluta; col suo nasino costantemente arricciato e il cappottino un po’ stretto ereditato dalla cugina. Luisa, o meglio Luisella, come la chiamava suor Ida, era amata persino dalla madre superiora, notoriamente burbera e severa. Quell’anno le monache da sole, senza l’aiuto dei bambini che avrebbero potuto rompere per imperizia qualcosa, avevano addobbato per il Natale, oltre al tradizionale presepe, anche un albero, un abete che aveva regalato loro un lavoratore della forestale la cui figlia frequentava l’asilo delle monache. Superata l’iniziale perplessità, dopo un lungo e sofferto conclave, grazie forse all’illuminazione dello spirito santo, le suore decisero che si, avrebbero addobbato l’albero e chiesero ad ogni bambino di comprare una pallina colorata. Detto fatto; in men che non si dica, arrivarono più di cinquanta palline d’oro, d’argento, rosse, verdi, una meraviglia. La moglie del sindaco democristiano, madre di un bambino di cinque anni, che ci teneva, in quanto prima cittadina, a distinguersi, portò di persona dei fiorellini che si illuminavano,s imili a fiocchi di neve. A guarnire la punta ci avrebbe pensato suor Ida; lei era bravissima a ricavare dalla carta qualsiasi cosa: animaletti, pupazzetti, forme geometriche. Per l’albero di Natale confezionò una bellissima stella cometa. I bambini erano rapiti da quella meravigliosa novità natalizia, certo, senza toccare nulla, perché erano bambini educati. Luisa fremeva felice e, non potendo toccare l’albero, abbracciava con trasporto gli altri bambini e condivideva così la sua gioia, in particolare con Vincenzo, il figlio del medico del paese, che aveva portato una sola pallina, come gli altri, forse perché il padre era socialista. Luisa, che come già sappiamo diventava una bambina capricciosa e testarda appena metteva piede a casa, chiese alla madre, neanche a dirlo, di fare l’albero di Natale. Lo chiese per tre giorni consecutivi, mattina, sera, a colazione, a pranzo, a cena. La madre dopo i primi no categorici e motivati, cosa c’entrava con la tradizione cristiana l’albero di natale!, cominciò a dare segni di cedimento: non ne poteva più dell’insistenza della figlia, del suo piagnisteo; infine cedette, grazie anche alla mediazione di Nella, la figlia maggiore, che propose non proprio un albero, bastava un alberello, magari finto… se lo diceva lei che, oltre ad essere la primogenita, era anche cattolica praticante…
E fu così che Luisa l’ebbe vinta anche quella volta.
Allietò tanti natali quell’alberello che, col passare del tempo, diveniva sempre più bello. La madre, che in fondo era buona anche lei, aveva aggiunto ai decori, sin dal secondo anno, facendola diventare una tradizione, degli animaletti di cioccolato che per la Befana venivano sorteggiati tra i bambini del vicinato. Passarono gli anni; ognuno prese la sua strada; Luisa si sposò e si trasferì al Nord per seguire il marito; ebbe una figlia che divenne subito la luce degli occhi delle ziane, le zie zitelle, attempate, che stravedevano per la nipote. Crebbe anche Rosaria che, sebbene la più piccola, aveva superato anche lei i cinquanta; si era sposata abbastanza giovane ma il matrimonio era presto naufragato. Gli anni passano lenti e veloci al tempo stesso; le sorelle maggiori hanno ormai i capelli bianchi e il viso grinzoso. È il 2020, arriva il Covid e, come accade per le disgrazie, non arriva da solo. Rosaria proprio lei che è la più piccola, si ammala di una malattia grave, proprio quell’anno in cui anche curarsi è un’impresa assai difficile per via del maledetto virus; quando non è possibile nemmeno godere della vicinanza degli affetti più cari. Un tornado si abbatte sulle teste delle sorelle attraversando l’Italia da Nord al Sud, sino alla Sicilia. Loro sono sempre state così: hanno sofferto e gioito tutte assieme, come se le loro vite non si fossero mai separate. Ma questa volta è diverso, il virus detta legge anche nelle relazioni più profonde e impone le sue regole. Trascorre quasi un anno, un anno lungo, cattivo, estenuante, fuori dal tempo e dalla grazia di Dio. E intanto sta arrivando Natale. E Luisa, lei è sempre al Nord, lontana; non ha che un desiderio: riabbracciare la sorella. E anche Rosaria aspetta da troppi mesi di rivedere la sua compagna di giochi e di avventure, come quando erano fuggite di casa a causa di un rifiuto materno, lei quattro anni, Luisa sette, per raggiungere la collinetta di creta in cerca di libertà. E’ il mattino del 25 dicembre. Squilla il telefono. E’Luisa; dice che arriva, che sta prendendo l’aereo; lo aveva detto Conte in televisione la sera prima che si poteva, in casi straordinari. Sarebbe arrivata in tempo per il pranzo, il pranzo di Natale. Lo avrebbe festeggiato insieme a lei, insieme a loro, dopo tanto dolore; avrebbero brindato ancora, insieme, al Natale, alla guarigione, alla vita. Di lì a qualche ora Luisa quindi sarebbe arrivata. Occorre subito un segno natalizio nella grande cucina soggiorno. La casa è calda ma i termosifoni accessi non bastano a dare calore. Ada scende in cantina, prende qualche ciocco di legno, prova ad accendere la vecchia stufa inutilizzata da tempo. Fa fatica: la stanza si riempie di fumo; dopo qualche tentativo andato a vuoto, la fiamma si avvia, viva e scoppiettante. Adesso va meglio, ma non basta.Senza averlo pensato, come d’istinto, va in garage, prende l’alberello, si, proprio lui, Spennacchio e lo addobba con le vecchie palline colorate. È misero in effetti e malmesso; a guardarlo bene, appare visibilmente datato. Ma cosa si può fare all’ultimo momento!Squilla il campanello, a lungo, impaziente.
È lei, è Luisa! E’ arrivata! Un lungo abbraccio con Rosaria innanzitutto, tra lacrime e tenerezza. Ho fatto il tampone proprio due giorni fa, sussurra. Si abbracciano le quattro sorelle, senza saziarsi, lì sull’uscio di quella che era stata la dimora materna. Poi, sovrapponendo le loro voci, vanno nel soggiorno, il cuore della casa. C’è un gran tepore che sembra fare tutt’uno con il profumo del ragù che borbotta sul fuoco da ore.Luisa nota subito la tavola apparecchiata per la festa, con semplicità ed eleganza, e poi dopo la stufa accesa; sa che è per la sua venuta. Solo in un secondo tempo si accorge di Spennacchio, lì nell’angolo della stanza, un po’ malconcio, forse inadeguato.
Ride Luisa, ride di cuore, battendo le mani come una bambina. Non è cambiata affatto, benché sia nonna ormai. Spennacchio! Lo chiama per nome. C’è Spennacchio, dice rivolta alle sorelle, gli occhi ridenti e commossi. L’ albero, come un vecchio amato e riconosciuto risponde al richiamo; o è solo una impressione?! Ha disteso i suoi rami, rinvigorito, le sue luci appaiono più calde e più vive. E’ di nuovo Natale!

BETHIS (Francesco Scattareggia)

Terzo piano grandi magazzini, in fondo al reparto, sistemato in un angolo, non facevo una grande figura in confronto a quegli alberi alti e frondosi, addobbati con eleganza e con mille luci. Ormai mancavano pochi giorni a Natale e da lì a poco sarei tornato nei cantinati, chiuso in una scatola anonima. A chi poteva interessare un piccolo albero spoglio, con i rami leggermente spruzzati di bianco e una punta inclinata, come fosse difettosa?
Un uomo, invece, cominciò a fissarmi. Era insieme ad una donna, una coppia pensai. Non era molto convinto, scuoteva la testa ma lei lo spingeva verso di me, quasi ad incoraggiarlo. Alla fine mi scelse e dopo qualche ora mi ritrovai in una stanza spoglia, un paio di foto sulla parete attrezzata e niente di più. L’uomo, dopo aver steso un largo foglio di carta da regalo vicino al balcone, cominciò a vestirmi con luci e palline. Ero finalmente un albero di natale, avevo una casa e avrei portato allegria e calore, ma c’era qualcosa che non capivo. In casa non c’era nessuno se non l’uomo dagli occhi tristi. Quella sera, dopo che tutte le luci furono spente, restarono solo le mie, intermittenti e colorate, a illuminare la stanza. Lui stava sul divano, in attesa di qualcuno o di qualcosa.
Sono passati quattro anni e io sono ancora lì al mio posto. La stanza ha le pareti tappezzate di fotografie che raccontano di volti di ragazzi sorridenti e sereni sullo sfondo di paesaggi marini e distese di neve. Sembra di vedere i tre moschettieri con D’Artagnan al comando. Tutto è più caldo e accogliente, a volte anche troppo disordinato, di quel disordine che sa di vita.
Qualche giorno fa è riapparsa per un attimo quella donna a cui devo il mio essere albero, parte di una famiglia che qualcuno ha provato a cancellare senza riuscirci.
Mi chiamo Bethis e sono fiero di essere l’albero di questa casa.

L’albero degli orsetti Emilie e Albert e tutti i loro amici. Bisbigli d’amore in tempo di Covid (Marialuisa Lo Giudice)

“Albert…quanto mi appare lontano quel luglio 2010 quando decidemmo di scappare da Rothenburg ob der Trauber per venire in Sicilia a trascorrere gli ultimi anni…”
“E tutti i nostri amici si unirono a noi…che risate! Una fuga di massa verso il Mediterraneo…ma adesso…Emilie Emilie amore mio questo pazzo mondo non lo capisco piu. Sono stanco e ho paura di ammalarmi e morire”
“Ho paura anche io, amore mio, ma ti prego non parlare cosi…ho saputo una cosa: il clown ha sentito dire dalla giostrina che Marialuisa e Lavinia rinunceranno a viaggi, cenoni e feste con amici per non mettere in pericolo noi e tutti i loro cari. E poi il vaccino sta arrivando! un po’ di pazienza”
“Ma dici davvero Emilie?”
“Si’ e’ sicuro”
“Ho pensato….ho pensato…ho pensato tante cose ultimamente. Credo di aver sprecato la mia vita negli ultimi anni. A maggio scappiamo di nuovo, saltiamo sul trenino di Babbo Natale e giriamo il mondo! Non voglio morire senza aver visitato Samarcanda e Ulan Bator. E con la mongolfiera vedere dall’alto i camini delle fate in Turchia e il deserto dei Tartari.”
“Si, ovunque…ovunque…lontano prima che sia troppo tardi”
“Emilie dai, prepara le valigie, dillo a tutti i nostri amici. Emilie Emilie… abbracciami forte, sento tanto freddo, abbracciami amore di una vita”
“Sono qui…non ti lascio, sono qui…dicono che il cielo sulla steppa mongola sia azzurrissimo e sterminato…lo vedi?”
“Si lo vedo…e’ incredibile…e’ azzurrissimo come… gli occhi della mia mamma.
Ciao mamma, sei bellissima.”

LA FATINA DER NATALE ( Sabrina Balbinetti, Roma)

“Trilù, so’ la Fatina der Natale, te vojo arigalà un desiderio, quarcosa de agognato, de speciale….

Trilù, nun sto a scherzà….. parlo sur serio!”

“Fatì, io te ringrazzio…..nun capisco, a che te riferisci? Abbi pazzienza….”

“Quanno che viè er Natale me ‘ntristisco e me viè voja de beneficenza! Ho visto che hai fatto un ber Presepe, mòrto curato ‘ndei particolari : inzino er muschio messo ne le crepe e un ber coretto co’ li zampognari. Co’ quale statuina inanimata te scambieresti pe’ ventiquattrore?”

“Guardanno ne la stalla smollicata escrudo pe’ rispetto er Signore! La Vergine Maria, mejo de no, ancora indolenzita pe’ er travajo! Giuseppe, er falegname, nun sarò me metterei, sicuro, in quarche guajo. Er Bove e l’Asinello, poveretti, du’ radiatori a fiato ben sfruttati. Appesa pe’ l’ale come l’Angioletti me sentirebbe l’arti incaprettati! Li Maggi, no! Pe’ carità de Dio! ner fa’ regali ciò più fantasia. Er Fabbro? Si, però a modo mio co’ la fornace spenta, tuttavia! Pure er pastore, pòro disgrazziato, co’ quell’abbacchio addosso pe’ un mesetto… se sente tutto mezzo ciancicato cor torcicollo acuto, poveretto! La pecora me ‘ntriga, so’ sincera, ‘na craturella mite , guasi Santa! Risarta, a quattrozzampe, tronfia, fiera, eternamente messa a NOVANTA! Tu me dirai….ammazza che tignosa! Però, Fatina mia, ce penzo bene ‘no scambio fatto a la sinfarosa te po’ ariportà più guai che pene! Così tra luci, muschio, campanelle, caciotte, frutta fatta co’ la cera, piccioni, leggionari, e pecorelle….. ho ritrovato ‘na perzona vera…. Sdraiato co’ ‘na mano pe’ cuscino, illuminato appena da un lampione, (in compagnia de un fiasco de bon vino) c’è Gnecco, arinomato ‘mbriacone. Nun è pe’ esse’ sacrilega,blasfema, che scejo lui ar posto de li Putti…. però la statua messa in de ‘sta scena me da l’idea che ha SARDATO tutti!!”

Breve monologo di un pastorello (Natalia Franchina)